Introduzione tratta da Il libro delle superstizioni
Gatti neri, specchi rotti, giorni sfortunati, numeri fortunati, amuleti infallibili e talismani indispensabili. Sono pochi esempi di quello sterminato catalogo di superstizioni cui, sin dalla notte dei tempi, gli uomini ricorrono contro i rischi del vivere e le incognite della realtà.
Credenze, simboli e comportamenti che vengono da molto lontano, spesso neanche ne conosciamo l’origine. Le usiamo e basta, come facciamo con il linguaggio. Non conosciamo certo l’etimologia di ogni parola che usiamo, eppure continuiamo a parlare.
In realtà, le cosiddette superstizioni servono a dar senso agli aspetti più oscuri e sfuggenti del mondo, della natura, della società. E soprattutto ci aiutano a riconoscere e controllare le nostre ansie, paure, insicurezze dando loro un volto, una forma e persino un numero. Familiari, riconoscibili, senza possibilità di errore. Lo iettatore, il giorno sfortunato, l’olio rovesciato, il sale dietro le spalle, il rametto di corallo. Sempre e comunque simboli che riassumono le inquietudini degli uomini e, a dispetto delle apparenze, contribuiscono a razionalizzarle.
Il malocchio e la iettatura, per esempio, spiegano a modo loro degli avvenimenti sfavorevoli attribuendone la causa all’azione di un potere malefico. Dall’invidia del nostro rivale agli incantesimi confezionati da professionisti del soprannaturale come streghe e maghi. In effetti, sia il malocchio sia la iettatura si fondano sui poteri dell’occhio e dello sguardo che rappresentano i fondamenti simbolici della nostra cultura. Dalle concezioni religiose che fanno del sole la pupilla del cosmo – tanto da rappresentare Dio come un occhio – fino a quelle politiche che dai tempi dell’Egitto faraonico fino al Re Sole rappresentano il sovrano come un occhio che tutto vede e tutto può. Nel bene come nel male. Proprio perché l’occhio è fonte di energia si riteneva che lo sguardo potesse portare bene ma anche male, prosperità ma anche rovina. Soprattutto se era carico di invidia, che deriva dal latino invidere e significa letteralmente guardare bieco. Con occhio cattivo, meglio conosciuto come malocchio. La pupilla può insomma emanare fascino in ogni senso della parola. Termine che in origine significava soprattutto incantesimo, legame magico. In tempi antichi si riteneva che l’invidia avesse addirittura il potere di inaridire le messi. Oggi, anche senza arrivare allo stato di calamità, continuiamo ad avere un po’ di paura dell’invidia.
Tutto questo non significa che viviamo chiusi in una bolla oscurantista, impenetrabile dalla luce della ragione. Significa semplicemente che la maggior parte delle persone passa da un tipo all’altro di razionalità, come si fa con le sim dei telefonini. Si viaggia su due bande: accanto al pensiero fondato sulla causalità scientifica, quella empiricamente e logicamente accertabile, si attivano anche altre forme di pensiero fondato sull’associazione dei simboli. Siamo tutti incrollabilmente illuministi nell’ufficialità e spesso un po’ superstiziosi nell’intimità. Anche se ormai nessuno, o quasi, ha il coraggio di dichiararsi tale. Al massimo ammettiamo di essere scaramantici. Ma in realtà la differenza è solo di dosaggio, perché la scaramanzia non è altro che una forma di superstizione light. Sta di fatto che nella civiltà dell’hi-tech si fa un ricorso massiccio, ancorché clandestino, a cornetti, amuleti, coralli e chi più ne ha più ne metta. Ai politici che fanno le corna e altri scongiuri abbiamo ormai fatto l’abitudine. Sin da quando nel 1935 Mussolini ricorse al gesto apotropaico dopo una lite con il ministro inglese Anthony Eden che riteneva uno iettatore. E gli esempi di oggi sono fin troppo noti. Recentemente Umberto Bossi, leader della lega Nord, ha dichiarato in un’intervista al quotidiano «la Repubblica» di aver messo fuori la porta un crocifisso di legno che tocca tutte le mattine uscendo di casa, perché porta fortuna. Corno o crocifisso, a fare l’amuleto non è l’oggetto, ma la funzione.
Forse in fondo restiamo convinti che superstizione e scaramanzia siano strategie utili per la nostra sicurezza. Al punto da essere tramandate geneticamente. È quel che dicono due ricerche scientifiche condotte da insospettabili scienziati dell’Università di Padova, pubblicate qualche anno fa sulla rivista Applied Cognitive Psychology. Gli studiosi assicurano che scongiuri e scaramanzia sono addirittura convenienti dal punto di vista dell’evoluzione. Perché il progresso umano ha bisogno di un’intelligenza pronta a confrontarsi anche con ciò che è insolito, sorprendente, incomprensibile. L’esperimento finale ha dimostrato che i soggetti che coltivano forme di superstizione o di scaramanzia sono perfettamente in grado di comprendere la differenza tra il nesso di causa-effetto che sta alla base dei fenomeni e le associazioni tra simboli che, invece, tentano di attribuire significati ad accadimenti misteriosi sui quali la scienza tace. Almeno per il momento. Ma c’è di più. Per gli autori dell’esperimento lo scetticismo radicale appare addirittura dannoso dal punto di vista biologico e culturale. Perché meno elastico, meno curioso e meno disponibile ad allargare i confini della ragione. Almeno fino a quel “non è vero ma ci credo” che è la no man’s land dove ragione e superstizione mescolano le rispettive acque, come le correnti di un fiume che si getta nel mare.
Non diversamente James George Frazer, padre dell’antropologia britannica, riteneva che la superstizione fosse all’origine delle istituzioni umane. Dalla proprietà privata alla politica, dal matrimonio all’ordine pubblico. La sua idea era che il cosiddetto rispetto superstizioso per l’integrità magica delle persone e delle cose altrui è il cemento di base che tiene unite le società. Insieme al timore delle punizioni soprannaturali: dalla paura dei morti e delle maledizioni alla credenza nella magia del potere. Era celebre il caso del re assiro Nabucodonosor, temuto e riverito per l’efficacia dei coloriti anatemi che era capace di ricordare a memoria e lanciare contro i nemici della collettività con un ritmo da rapper. Mentre a fine Ottocento, in pieno positivismo, i re d’Inghilterra toccavano ancora gli ammalati di scrofola perché tra i poteri della sovranità vi era anche quello di guarire questa malattia per imposizione della mano.
La superstizione sarebbe quindi una sorta di premoderno spirito delle leggi che resta sottotraccia nei comportamenti di noi moderni ispirando una filiera di comportamenti, dando al termine un senso analogo a quello che gli dava il grande studioso di lingue indoeuropee Emile Benveniste. Non semplice sopravvivenza, credenza superstite, ma super-stitio, ovvero star più in alto, avere un punto di vista ulteriore, un altro modo di stabilire nessi significativi fra simboli e accadimenti.
In fondo sono solo gli scettici inossidabili a credere che i superstiziosi siano totalmente accecati dalle loro false credenze. In questo senso sono loro i veri superstiziosi. Con buona pace dei nemici giurati di corni e ferri di cavallo, il cui partito conta esponenti illustri. Da Voltaire che considerava la superstizione una tara dell’umanità, ad Albert Einstein che ne allargava a tal punto il catalogo da farci rientrare la religione stessa, Dio compreso, che egli considerava “l’incarnazione di una superstizione infantile”.
In realtà ogni tempo, ogni cultura, ha la propria idea della superstizione. Se nei primi secoli del cristianesimo il termine identificava ciò che restava dei culti pagani, più tardi la parola è diventata sinonimo di credenza, o credulità, popolare. È l’illuminismo, con il suo culto della dea ragione, a stabilire una frontiera netta e invalicabile tra ragione e superstizione. Invalicabile a parole. Perché nei fatti non c’è frontiera più attraversata in entrambi i sensi. Soprattutto quando, nei periodi di crisi, la realtà appare più indecifrabile e nasce quel surplus di interrogazione che lancia i simboli come sonde da affondare nelle zone più oscure della realtà. È così che amuleti, talismani, giorni fausti e persone infauste diventano un modo per darsi l’impressione, talvolta l’illusione, di controllare l’incontrollabile. Un placebo. A condizione di non crederci fino in fondo, di vivere tutto ciò con il distacco ironico del “non è vero ma ci credo”. O se si preferisce del “non ci credo ma è vero”. Introducendo nella lettura della realtà qualcosa che assomiglia, alla lontana, a quel principio di indeterminazione che da Heisenberg in poi costituisce una delle grandi conquiste della scienza del ventesimo secolo.
In fondo nella superstizione c’è forse più scetticismo che nella fede assoluta nella ragione. Se è vero che il termine scettico deriva dal verbo greco sképtomai, che significa “osservare” e che anticamente la superstizione veniva definita superflua observatio. È vero allora che la superstizione ben temperata non è una caricatura della scienza. Ma una sorta di dubbio metodico, una osservazione supplementare che ci restituisce il senso dei nostri limiti conoscitivi. Ci ricorda che la realtà non si riduce all’alternativa secca tra vero e falso. E che la probabilità è parente stretta del mistero. Una saggezza cui si arriva per gradi. Ecco perché razionali si nasce, superstiziosi si diventa.
Marino Niola
Elisabetta Moro