Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
Siamo passati dall’invasione dei tartari all’invasione delle tartare. Soprattutto di tonno. Che da qualche tempo popolano le nostre tavole di cubetti rossi che odorano di mare. Magri e nutrienti. Fast e good. Filetti e tataki, tagliate e spiedini, polpette e scaloppe. Adatti a una ristorazione mordi e fuggi per consumatori sempre più esigenti. Certo è che la mano invisibile del mercato ha trovato il modo per moltiplicare i pani e i pesci. Visto che i tonnidi impazzano nei menù di tutto il mondo. Dalle alpi alle piramidi, dall’Indo al Mississippi. Ma da dove arrivano tutti questi pesci?
Dalle aziende-locusta, come le definisce il giornalista e scrittore Stefano Liberti nel bel libro inchiesta “I signori del cibo”, appena pubblicato da Minimumfax. Si tratta di grandi società transnazionali che controllano la pesca planetaria. E in più fanno il bello e il cattivo tempo nella trasformazione e distribuzione. Si avventano sui branchi come il capitano Acab su Moby Dick. “Saccheggiano i mari senza farsi troppi scrupoli, esternalizzano gli impianti di produzione e si spostano da una latitudine all’altra a seconda della disponibilità”. Pescano i tonni in Senegal e li lavorano a Cadice. In fondo business is business. E per loro il cibo è un affare come tanti altri. Una commodity. Un prodotto senza origine e senza identità, scambiato come un titolo azionario. Lo stesso accade con il concentrato di pomodoro, coltivato in Cina, trasformato in Africa e venduto in tutto il mondo spesso con nomi italiani. Non è diverso quel che avviene con il maiale, prodotto dalle catene di smontaggio americane e cinesi. O con il succo d’arancio, la soia, l’albume d’uovo. Se la finanza compra formaggi come se fossero banche e suolo agricolo come se fosse oro, allora vuol dire che il cibo non è più solo nutrimento. Ma un investimento.
Nei sogni orwelliani di queste aziende c’è un mondo in cui il mare e la campagna sono ridotti a grandi fabbriche di alimenti trasportati ovunque da un mercato senza barriere e senza frontiere, per nutrire città abitate da polli di batteria, ingozzati con alimenti provenienti dall’altro capo del mondo. In realtà i polli in questione rischiamo di diventarlo proprio noi, costretti a mangiare cibi sempre più standardizzati, prodotti a costi sempre più bassi, ma senza qualità e senza equità. Azionisti involontari di un mercato alimentare solo in apparenza vantaggioso. Ma che sta disseminando il pianeta di polpette avvelenate. [PDF Download]
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