Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
Il mondo magico incanta la laguna di Venezia. Specchi d’acqua che intrappolano architetture oniriche, feticci “irriducibili” alle forze oscure dell’economia, gesti apotropaici che invertono la freccia del tempo. Sono le opere, le idee e i segni che abitano il Padiglione Italia della Biennale d’arte, magistralmente curato da Cecilia Alemanni e liberamente ispirato agli studi dell’antropologo napoletano Ernesto de Martino (nella foto). A partire dal titolo, Il mondo magico, che riprende quello di un fortunato libro pubblicato all’indomani della seconda guerra mondiale, dove lo studioso partenopeo metteva a confronto i combattimenti volanti degli sciamani siberiani con gli incantesimi delle fattucchiere campane e le vie dei canti degli aborigeni australiani.
Facendo così rientrare dalla finestra quella magia che l’illuminismo aveva cacciato platealmente dalla porta, bollandola come una forma di pensiero primitivo, da superare con l’esercizio della ragione. In realtà de Martino era tutto tranne che un oscurantista. Il suo era piuttosto un illuminismo poroso, che si era aperto coraggiosamente agli studi sulle religioni di Mircea Eliade e a quelli sulle mitologie di Károly Kerényi. È sulla scorta di queste letture che nacque in lui la voglia di indagare le ragioni per cui in tutte le culture c’è sempre un dispositivo nascosto che apre quelle sliding doors attraverso le quali si esce dalla realtà materiale per entrare in un mondo parallelo. Luoghi immaginari certo, ma non per questo inesistenti, visto che si tratta di posti che vengono creduti possibili. Mondi magici, appunto, dove gli uomini si rifugiano quando la storia li stritola dentro i suoi ingranaggi e li aliena da se stessi.
In fondo l’arte, proprio come la magia, ricostruisce ipotesi di mondo mescolando realtà e immaginazione, corpi e simulacri. Come diceva Adorno l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità. E le opere sono per definizione delle finzioni vere. O delle verità finte. Come quelle di Giorgio Andreotta Calò, Adelita Husni-Bey e Roberto Cuoghi, i tre artisti chiamati a rappresentare l’Italia alla 57esima Esposizione internazionale d’arte, intitolata «Viva Arte Viva», fino al 26 novembre.
Ernesto de Martino si accorse molto presto che il mondo magico non era necessario andarlo a cercare in terre lontane. Bastava esplorare il profondo Sud, per ritrovare quelle che Pasolini chiamava le schegge di un’altra storia non più nostra. E non fu un rinvenimento in dolore, ma una scoperta spaesante, che fece vacillare le sue certezze di uomo e di studioso. Come accadde in Lucania, quando immortalò con macchina fotografica, cinepresa e registratore la nenia funebre intonata da una lamentatrice vestita di nero. Suoni, parole e gesti da tragedia greca. E de Martino rispose a dramma con poesia. «Mentre il cupo metro del lamento si leva nell’aria, io non posso trattenermi dal provare un senso di profonda umiliazione nel vedere in opera tutti quei complicati paraphernalia onde strappare alla povera Rosa il segreto del suo patire davanti alla morte, e non posso evitare il pensiero che solo una società sciagurata può averci ridotto a tanto, Rosa ed io, da incontrarci come se fossimo abitanti di diversi pianeti».
Rosa Stasi, infatti, aveva messo in scena il lamento che le donne del Sud intonavano alla morte di un membro della comunità. E lungi dal considerare le lacrime della donna come una sopravvivenza superstiziosa, lo studioso scelse di interrogarsi su se stesso e sulla sua cultura, sullo scandalo di quella faglia storica così profonda da rendere una sua contemporanea lontana quanto una donna dell’antichità. Straordinariamente simile a quelle prefiche con le braccia alzate al cielo, i capelli scarmigliati e i volti da maschere piangenti, dipinte nelle tombe dell’antica Lucania, cui il museo archeologico di Paestum dedica ora una mostra, «Action Painting. Rito &Arte nelle tombe di Paestum» (fino al 31 dicembre), che alle testimonianze archeologiche accosta proprio lamenti funebri filmati nel Mezzogiorno degli anni Cinquanta.
Insomma, che si tratti di incantesimo dell’arte o di arte dell’incantesimo, la magia è sempre una questione di visione. Perché, come diceva il poeta William B. Yeats, il mondo è pieno di cose magiche in paziente attesa che i nostri sensi le mettano a fuoco.
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