Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
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Gli italiani hanno abbandonato la dieta mediterranea. Meno della metà la segue regolarmente. A dirlo è lo studio pubblicato sull’European Journal of Public Health, dal titolo «Socioeconomic and psychosocial determinants of adherence to the Mediterranean diet in a general adult Italian population». L’indagine — condotta da 27 ricercatori italiani che collaborano al Progetto Moli-sani e all’Inhes Study (Italian Nutritional & Health Survey), guidati da Licia Iacoviello, medico e professore ordinario di Igiene e salute pubblica all’università dell’Insubria di Varese — è partita da una domanda: quante persone praticano questo stile alimentare nel Paese in cui è stato scoperto? Le risposte sconfortano: al Nord solo il 41 per cento della popolazione mangia mediterraneo.
Al Sud si sale appena al 42,1 per cento. Il Centro sembra che affacci sul Baltico anziché sul Mare Nostrum: totalizza un misero 16,8 per cento. E il pareggio tra settentrionali e meridionali è solo apparente: per chi è nato sotto Roma spaghetti al pomodoro, pasta e fagioli, parmigiana, pesce e contorni appartengono al repertorio di mammà.
Si mangia così per tradizione. Per chi, invece, è cresciuto nella Pianura Padana o sotto l’arco alpino, la piramide alimentare è una scelta consapevole. Un modo per bilanciare gusto e salute. Dal campione analizzato, rappresentativo dell’intera popolazione nazionale, si nota anche che a preferire le sane abitudini della cucina nostrana sono adulti e anziani. Intanto perché la dieta mediterranea allunga la vita e, poi, perché aiuta a prevenire molte malattie, prime fra tutte quelle cardio-cerebro-vascolari, come dimostrato da un’infinità di studi internazionali. La ricerca sfata anche il luogo comune secondo cui la dieta mediterranea sarebbe un mangiare da poveri, come negli anni Cinquanta. Niente affatto. Ormai è un mantra alimentare da ricchi ben alfabetizzati.
Titolo di studio e sana nutrizione vanno di pari passo. Laureati e diplomati mangiano meglio di tutti gli altri. E lo stesso vale per gli accoppiati. Risulta, infatti, che le separazioni portino con sé una caduta verticale delle sane abitudini a tavola, dal 70 al 3 per cento. Ma a fare la differenza sono anche i mass media. Giornali, programmi tv e social influenzano tutte le fasce d’età, rendendole più propense a mangiare mediterraneo. L’efficacia di questo combinato disposto tra istruzione e informazione dovrebbe far riflettere le istituzioni, spesso a caccia di buone strategie per correggere le cattive abitudini. Basterebbe unire le forze in un progetto comune. Tornando alle fotografie dell’Italia a tavola, l’aderenza alla dieta mediterranea cresce con il reddito. Come dire che oggi è un lusso. Non a caso la crisi economica del 2007-2010 ha spinto molti italiani verso consumi alimentari di qualità inferiore, più simili a quelli del Nord Europa.
Incrementando l’acquisto di uova, formaggi, insaccati low cost, pane e dolci a lunga conservazione, nonché cibi pronti industriali, ricchi di grassi, zuccheri e sale. Qualcosa di analogo era già accaduto con il boom economico degli anni Sessanta. La differenza è che, allora, gli italiani volevano lasciarsi alle spalle la guerra e la miseria contadina. Così migrarono verso un Eldorado proteico fatto di piatti che avevano il sapore del benessere.
Sempre più sughi elaborati, carni rosse, formaggi, uova, grassi animali. E meno cereali integrali, legumi, verdura, dolci al posto della frutta. Sostanzialmente il modello alimentare made in Usa. Un paradosso visto che proprio in quel periodo il più importante nutrizionista del Novecento, lo statunitense Ancel Keys, scopriva l’ineguagliabile salubrità della dieta tricolore, pilastro di uno stile di vita gioioso e sano, economico e sostenibile, da proporre al mondo come ricetta di benessere e longevità. La storia gli ha dato talmente ragione che l’Unesco nel 2010 ha proclamato la dieta mediterranea patrimonio dell’umanità. E la Fao, tre anni dopo, l’ha indicata come ricetta ideale per nutrire il pianeta con un basso impatto ecologico. I primi a capirlo e a tradurlo in politiche sono stati i finlandesi che, negli anni Settanta, abbassarono i dazi sull’importazione di frutta, verdura, olio extravergine d’oliva e vino per favorirne i consumi. Il risultato di questa «mediterraneizzazione» è che, allora, avevano il primato europeo di infarti mentre oggi sono sani come pesci. Gli Stati Uniti, invece, sono andati nella direzione opposta. L’obesità e le malattie da cattiva alimentazione erano e restano un flagello. Con i ceti più poveri che vengono prima ingozzati dall’industria del junk food e poi stigmatizzati come bombe a tempo per il sistema sanitario. E una prova ulteriore di questo sballo nutrizionale è l’overdose di carne che negli States supera in media il quintale all’anno pro capite. Secondo l’università di Oxford è record mondiale.
Il Belpaese, con i suoi 50 chili, è lontano da questi eccessi. Nonostante ciò l’Italia ha un indice di adeguatezza mediterranea (Mai), cioè la misurazione scientifica di quanto lo stile di vita aderisca a questo modello, per nulla entusiasmante. Negli anni Sessanta la media nazionale era di 3,3, un valore non altissimo su una scala da 1 a 10, ma che includeva casi virtuosi come la Calabria (7,5) e il Cilento (6,3) assieme a casi meno brillanti come l’Emilia Romagna (2,4). Oggi la media è scesa a 1,6: per fare un paragone gli Stati Uniti, ultimi in classifica, sono a 0,64.
Insomma, non siamo i peggiori al mondo, ma stiamo sconsideratamente abbandonando la nostra cultura culinaria. Persino chi cucina in casa, dicono i dati, la snobba. Fa molto meglio chi lavora fuori, in particolare se in possesso di un titolo di studio: in questo caso c’è più capacità di organizzare menu vari, bilanciati e stagionali. E di acquistare in modo consapevole, visto che chi risponde a questo profilo socioeconomico legge le etichette, come dimostrano sia i risultati del Moli-sani Project che il MedEatResearch, il Centro di ricerche sociali sulla dieta mediterranea dell’università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il problema più grande sono, però, i bambini. Soprattutto al Sud.
Secondo un’altra ricerca, Okkio alla Salute — svolta ogni due anni dal ministero della Salute e dal Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie su un campione di 48.946 bambini di 8-9 anni e 48.464 genitori di tutte le regioni — tra malnutrizione e obesità i piccoli italiani se la passano male.
Siamo il Paese europeo con più minori oversize, 3 su 10. E la Campania, dove la dieta mediterranea è stata scoperta, è addirittura il fanalino di coda. Perché? È presto detto. I piccoli mangiano mediterraneo ai pasti, ma fast food fuori casa. Fanno poco port. E poi l’idea stessa di sovrappeso non è dettata solo dalla bilancia, ma anche dai parametri estetici. I genitori del Sud, sottolineano gli scienziati, non rilevano i chili in eccesso finché il bambino non è palesemente obeso. In più da un ulteriore studio svolto in Campania dal MedEatResearch un fattore determinante è l’importanza del cibo nella relazione tra madre e figlio. Soprattutto nelle classi sociali più disagiate, dove una madre affettiva e accudente è prima di tutto «nutriente».
Insomma, il maternage passa specialmente attraverso la bocca. E la seduzione alimentare riguarda più i figli che i mariti. È evidente, dobbiamo ricominciare tutto daccapo, recuperando il meglio della tradizione. Non per una intempestiva nostalgia del passato. Ma per un lungimirante ritorno al futuro.
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