Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
È il cuore rosso della dieta mediterranea. Ma fino a poco tempo fa, il pomodoro era un perfetto sconosciuto. Almeno nel Vecchio Mondo, mentre nel Nuovo era il re della tavola già quattromila anni fa. Nel variopinto mercato di Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi, si vendeva alla grande. Crudo, cotto e persino concentrato. Lo racconta il francescano spagnolo Bernardino de Sahagún nell’Historia general de las Cosas de la Nueva Españascritto nella seconda metà del Cinquecento.
Un manoscritto prezioso, redatto come una vera e propria etnografia, che in dodici volumi meravigliosamente illustrati descrive usi e costumi, arti e credenze delle popolazioni autoctone del Messico. Da quelle pagine sappiamo che le donne Nahua vendevano dei veri e propri sughi pronti a base di passata, peperoni verdi dolci, peperoncino piccante e semi di zucca.
Un’arrabbiata latino-americana, insomma, usata per guarnire piatti di pesce e di carne. E scopriamo pure che gli Indios il pomodoro crudo lo mangiavano piuttosto acerbo, tagliatoa fettine, proprio come nelle nostre capresi. Lo chiamavano tomatl e con questo nome il frutto purpureo è giunto in Europa nel Cinquecento a bordo delle navi dei Conquistadores. Ma, paradossalmente, non è arrivato nel posto giusto al momento giusto. Così il suo esordio europeo è stato un flop.
Molti erano certi che non fosse nemmeno commestibile. Anche perché l’opera di fray Sahagún era stata immediatamente censurata, in quanto conteneva troppecritiche alla brutalità dei colonizzatori. Senza una mediazione culturale adeguata, il pomodoro si ritrova come uno straniero privo di documenti.
Guardato con sospetto. Alcuni lo considerano addirittura un veleno, nei casi migliori come un farmaco, mai comunque come una cosa buona da mangiare. Gli amanti dell’esotico lo apprezzano come pianta ornamentale, bella da vedere e con un profumo quasi erotico. Al punto da far nascere il mito che si trattasse di un potentissimo afrodisiaco. Per questo i Francesi lo ribattezzano pomme d’amour (pomo dell’amore), gli Inglese love apple e i Tedeschi Liebesapfel (mela d’amore).
Nella Francia del Re Sole, gli amanti ne regalano mazzetti alleloro dame, per stuzzicarne gli appetiti amorosi. Mentre gli alchimisti lo impiegano in pozionie filtri magici.
Insomma, l’ortaggio color red passion conquista prima i cuori e poi lentamente anche le tavole. Dove compare inizialmente come compendio a melanzane e zucchine, in uno stufato descritto nel ricettario di Antonio Latini “Lo scalco alla moderna”, pubblicato a Napoli nel 1694. La stessa ricetta ricompare qualche anno dopo nel Panunto toscano, un testo del gesuita Francesco Gaudenzio che, di fatto, santifica quel matrimonio tra l’extravergine e la pummarola che ha fatto la fortuna della dieta mediterranea. Il felice connubio è legittimato nel 1781 dal grande gastronomo Vincenzo Corrado che nel suo, “Il cibo pitagorico”, primo libro al mondo di cucina vegetariana, promuove il pomodoro a “salsa universale”. Ma rimane pur sempre una guarnizione per carni, pesci, uova ed erbe. Per il matrimonio con la pasta bisogna attendere il 1839, quando il gourmet partenopeo Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nella sua celeberrima Cucina teorico-pratica, mette nero su bianco la ricetta dei “Vermicelli co’ le pommadore”, rigorosamente indialetto napoletano. È l’inizio della rivoluzione rossa. Comincia infatti l’irresistibile ascesa del piatto che, secondo una ricerca Oxfam condotta nel 2013 in 137 Paesi, risulta il più amato al mondo. Un capolavoro di semplicità che è il simbolo planetario del mangiare all’italiana. Merito anche delle conserve fatte in casa, che con il loro sapore intenso e allegro, hanno trasformato il Belpaese in una Bengodi democratica. Di qua e di là dell’oceano. Dove la tomato sauce arriva con i nostri paisà. Dai cortili di Brooklyn l’odore delle conserve si spande fino all’Upper East Side, come un richiamo stagionale della patria lontana. E in qualsiasi luogo approdi un italiano, prima o poi si sente quel profumo inconfondibile. Che è l’essenza della Dolce Vita.
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