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Lévi-Strauss, il realista: l’uomo non è buono – La Lettura del Corriere della Sera

9 Febbraio 2020

Intellettuale ribelle e non consensuale. È la sintesi perfetta di ciò che è stato Claude Lévi-Strauss, l’antropologo che ha insegnato al Novecento quanto studiare l’altro sia di vitale importanza per salvaguardare il noi. Osservare la vita primitiva delle tribù dell’Amazzonia, interpretareimiti degli indiani d’America, analizzare i riti d’iniziazione dei cacciatori di teste della Nuova Guinea, cercare le ragioni dell’onnipresenza del tabù dell’incesto, decifrare la grammatica universale della cucina, capire come siamo arrivati alla mucca pazza, investigare l’idolatria popolare suscitata da Lady Diana… non sono esercizi oziosi, infatuazioni tropicali, divagazioni accademiche, ma la materia prima della più radicale delle ricerche. Quella che si interroga su che cosa sia l’uomo. Cos’è che ci rende uguali e perché al tempo stesso siamo tanto diversi? Due domande alle quali ne segue un’altra, la più insidiosa. Perché gli altri ci spaventano?
Lévi-Strauss trascorse la sua vita centenaria, iniziata nel 1908 a Bruxelles e conclusa a Parigi nel 2009, andando di bolina, controvento, dall’uno all’altro di questi quesiti. Affrontando la tempesta delle contraddizioni nella quale si ritrova sempre chi crede che l’uguaglianza tra gli uomini sia un principio assoluto e inalienabile, ma è costretto a constatare che questo principio la storia lo fa continuamente a pezzi. Come testimoniano i genocidi dei popoli autoctoni delle Americhe da parte dei Conquistadores spagnoli e l’Olocausto con la sua lista infinita di vittime tra ebrei, oppositori politici, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, sterminati in nome dell’ideologia della razza pura. Due capitoli della storia dell’Occidente che costituiscono l’alfa e l’omega della disumanità. Il primo studiato sui banchi di scuola, il secondo vissuto sulla pelle, vista l’origine ebraica della famiglia Lévi-Strauss. Di qui il suo disincanto, quell’atteggiamento realista e mai buonista che è diventato una postura intellettuale.
Chi lo ha conosciuto personalmente o attraverso le sue opere monumentali, sa che l’autore di Tristi Tropici non credeva nella bontà dell’uomo ed era convinto che gli errori e gli orrori dell’umanità avrebbero finito per fare estinguere la nostra specie. Al punto che nel finale de L’uomo nudo pronostica che la Terra continuerà la sua traiettoria nel tempo senza più esseri umani a bordo. Ma questo pessimismo non gli impediva di avere una grande fiducia nelle potenzialità dell’intelligenza umana. Come raccontano mirabilmente due libri preziosi appena andati in libreria. Lévi-Strauss e la catastrofe. Nulla è perduto, possiamo riprenderci tutto (Mimesis) scritto dall’antropologo Salvatore D’Onofrio, professore all’Università di Palermo e docente all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, nonché membro del Laboratoire d’anthropologie sociale del Collège de France fondato nel 1960 proprio da LéviStrauss. E un secondo volume edito da Raffaello Cortina, dal titolo Da Montaigne a Montaigne, che raccoglie la prima e l’ultima conferenza del grande antropologo. Entrambe fino ad ora inedite ed entrambe dedicate, non a caso, al filosofo che più di chiunque altro ha messo sul tavolo della modernità il tema dell’uguaglianza tra gli uomini e della ricchezza che viene dalla diversità. Assieme all’idea che ogni cultura vada guardata con gli occhi dei suoi membri e non con quelli della nostra, perché solo così si possono eliminare i paraocchi dell’etnocentrismo.

Michel Montaigne è il cantore cinquecentesco dell’alterità e Lévi-Strauss lo mette al centro di questi due discorsi con i quali apre e chiude la sua carriera di oratore.
Inaugurata nel gennaio 1937 davanti ai quadri del sindacato francese di tendenza comunista Cgt che, con tutta probabilità, rimasero sbigottiti vedendosi demolire pezzo per pezzo la teoria evoluzionista applicata alle società, quella che ancora oggi rimane sottotraccia nei luoghi comuni, nelle chiacchiere da bar e, ahimè, nell’approccio irriflesso e muscolare di molti. Che continuano a credere che le comunità nascano primitive, transitino in un passaggio evolutivo intermedio chiamato barbarie e alla fine del percorso raggiungano lo stadio supremo della civiltà. Quello in cui gongolerebbe l’Occidente oggi. Insomma, un progresso lineare, de claritate in claritatem, dove alcuni popoli sono avanzati e altri arretrati.
Peccato che tanta chiarezza pragmatica venga continuamente smentita dai fatti. Basterebbe una settimana nella foresta amazzonica e la nostra superiorità cadrebbe in ginocchio davanti alla difficoltà di sopravvivere.
Ma, evitando i paradossi esotici, non sfugge a nessuno che basta abitare in una periferia industriale delle nostre città, per scoprire che il guadagno di pochi si abbatte come un cataclisma sulla salute di molti e che quello che fino ad ora ci è sembrato progresso si sta purtroppo rivelando un regresso. Ma il sistema di valori che ci siamo dati autorizza il saccheggio delle risorse naturali qui ed ora, aria pulita compresa, senza pensare al domani. In questo senso il neo-ecologismo globale, alla Greta, sempre meno antropocentrico e sempre più biocentrico, a Lévi-Strauss sarebbe molto piaciuto.
Proprio in questo nostro tornante della storia si rivela particolarmente importante il testo di Salvatore D’Onofrio, che mostra l’attualità del pensiero dell’etnologo francese e delle sue riflessioni affilate sulle catastrofi provocate dalla diffusione del nostro modello capitalistico industriale che sacrifica uomini e cose, animali e piante, conoscenza e intelligenze. E che si è installato come un cavallo di Troia informatico nella mentalità collettiva.
Soltanto riconoscendo che lì si trova la matrice ideologica del saccheggio delle Americhe, del flagello nucleare di Hiroshima e Nagasaki, di quella catena di smontaggio dell’uomo che sono stati i Lager, fino all’attuale inquinamento di massa, potremo davvero riorientare tutte le nostre azioni in funzione della vita. In fondo non tutto è perduto. Il popolo di Israele assieme alle tribù amerindiane lo testimonia per esperienza vissuta, si può sempre ricominciare daccapo.

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Elisabetta Moro
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