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Il ricordo dei vivi spaventati – il Caffè

20 Aprile 2020

Centomila. La soglia è stata raggiunta a Pasquetta e ormai è ampiamente superata. Un numero simbolico. Un’iperbole del dolore che lascia senza fiato. Una moltitudine di vite spazzate via in qualche settimana. Vivevano in Svizzera e in America, in Europa e in Cina, in Giappone e in India. Il bollettino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si aggiorna con la velocità di una roulette. Conta i morti, tira una riga e conta altri morti. Anche nella Confederazione il numero di vite spezzate cresce veloce, puntando diritto ad una cifra a tre zeri. E ci consola poco sapere se rispetto al numero totale dei contagiati si tratti di una percentuale alta o bassa. Se siamo in linea con la ruota della sfortuna di Wuhan o se seguiamo la stessa drammatica sinusoide dell’Italia. Perché di fatto questa perdita di esistenze si può conteggiare ma non calcolare. Si può quantificare ma non valutare. Poiché, dramma nel dramma, il COVID-19 non ci dà il tempo di riflettere, di analizzare, di capire. Ci costringe a inchiodare le bare in tutta fretta. Ci obbliga a bruciare i cadaveri a ciclo continuo. Ci impedisce di dirgli addio.

A Bergamo una fila lunghissima di camion dell’esercito italiano ha scortato centinaia di defunti verso l’Aldilà. Senza il corteo dei parenti e degli amici, senza il codazzo dei colleghi, senza gli operatori delle pompe funebri.

A New York una fila di casse di legno anonime, senza simboli religiosi, senza nomi, senza segni particolari, sono state interrate l’una accanto all’altra in una fossa comune sull’isola di Hart. Dove un braccio meccanico ha scavato un solco grezzo, quasi fosse un aratro del nulla, per consentire alla terra di accogliere i senza dimora, i senza famiglia, i senza denaro, i senza affetti, nel ventre caldo della terra.

A molti, in tutto il mondo, è capitato di vedere i propri cari uscire di casa su una barella del soccorso sanitario per vederli tornare ormai cenere in un’urna.

Per reggere a tanto dolore ciascuno di noi ha messo in campo strategie di sopravvivenza, leggendo le notizie a singhiozzo, ascoltando i bollettini a intervalli di giorni, immedesimandoci con una storia alla volta, perché tutte ci avrebbero travolti. Ma nonostante l’uomo abbia infinite risorse per fare fronte alle avversità, compresa la rimozione, ormai è diventato impossibile girarsi dall’altra parte. Dobbiamo farci i conti. Perché è necessario elaborare i lutti per trovare la via d’uscita dalla sofferenza. C’è bisogno di compatire e compiangere. Cioè di partecipare delle sofferenze altrui e di condividere le proprie. Ma con il divieto di celebrare i funerali che vige in molte Nazioni tutto questo è sospeso. E anche quando qualche parente è ammesso, il fardello da portare risulta troppo pesante per chi accompagna il feretro e insopportabile per chi deve lasciarlo andare per restare a casa.

Insomma, stiamo tutti vivendo una esperienza senza precedenti. Perché non è il replay delle epidemie di peste che hanno flagellato il mondo moderno. Allora la morte era onnipresente, la si incontrava dappertutto, come dice il grande scrittore spagnolo Carlos Ruiz Zafón. E non è nemmeno il colera del secolo scorso, la strage dell’epidemia di Aids degli anni Novanta, oppure lo strazio delle vittime atterrate ogni anno dall’influenza. E nemmeno l’ecatombe delle due guerre mondiali. È, invece, il blitz di un nemico invisibile che separa gli uni dagli altri. Che distanzia le vite e archivia le esistenze con la stessa imperscrutabilità di un algoritmo programmato da un bios indifferente all’uomo, da una natura che non conosce la pietà. E impedisce anche a noi, che avevamo trovato un modo di rendere dignitosa la morte, vestendo il caro estinto, accarezzandogli per l’ultima volta la mano, baciandogli la fronte, seguendolo fin dentro al cimitero, gettando un pugno di terra sui suoi resti, disperdendone le ceneri nel luogo che aveva amato in vita. Insomma, sapevamo come fare e ora non lo sappiamo più. Eppure, tutte queste vittime meritano un posto nel nostro cuore, una consolazione, la nostra partecipazione, il ricordo di un mondo dei vivi spaventato, che per paura non ha potuto accompagnarli al limitare della vita. Se potessero parlare, probabilmente ci chiederebbero di consolare i loro cari. Questo, almeno, glielo dobbiamo. [Download PDF]

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Elisabetta Moro
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