Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
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La famiglia non è un tribunale. Perché tra le mura domestiche rabbia e violenza prevalgono su verità e giustizia. Vale per noi italiani e deve valere anche per gli stranieri. Ce lo chiede la tragica fine di Saman, la diciottenne pakistana uccisa a Novellara in provincia di Reggio Emilia, dal suo clan familiare. Tutto onore e rancore. Che si è sentito legittimato a giustiziare una ragazza che rivendicava il diritto all’amore e alla libertà di pensiero. Due diritti inalienabili in Occidente. Due diritti inesistenti secondo i suoi parenti. Non è il primo caso del genere. Hina Saleem e Sana Cheema, anche loro originarie del Pakistan, hanno subito lo stesso tragico destino. Ma sono centinaia le ragazze, anche provenienti da altre nazioni, che subiscono violenze familiari di questo tipo. Questa volta però c’è un fatto nuovo. Il fratello di Saman ha denunciato lo zio e i cugini. Nonostante sia stato minacciato di morte se si fosse rivolto ai carabinieri.
Quando, la notte tra il 30 aprile e il primo maggio, il ferocissimo zio Danish gli ha detto di avere sistemato una volta per tutte la sua sorella ribelle, il ragazzo ha meditato di vendicarla ammazzandolo con le sue mani durante il sonno. Poi però ci ha ripensato, perché si è reso conto che il suo futuro sarebbe stato il carcere. Così è stato costretto a seguire l’assassino e i cugini, ritenuti complici dell’omicidio, in una fuga verso la Francia che si è conclusa con l’arresto. È allora che questo ragazzo coraggioso ha raccontato la verità. Nonostante i messaggini della madre, scappata col padre in Pakistan all’indomani dell’esecuzione, lo invitassero a mentire su tutta la linea e a depistare le indagini con un fantomatico viaggio di Saman in Belgio. Ma lui ha resistito a tutte le pressioni, i ricatti, le minacce. E ora vive sotto protezione, assistito legalmente e psicologicamente dai servizi sociali.
In realtà l’azione coraggiosa di questo sedicenne è una novità e costituisce un decisivo fattore di discontinuità su cui puntare per far uscire questo tipo di famiglie dal cono d’ombra della loro barbarie. Perché fino ad ora i parenti delle vittime hanno sempre fatto fronte comune contro il nostro ordinamento giuridico e contro il nostro modo di concepire le libertà individuali. Infatti, il fratello maggiore di Hina Saleem ha sempre difeso i parenti assassini e ha addirittura contestato la presenza di una foto della sorella senza velo, sulla tomba nel cimitero di Brescia. E il fratello di Sana, Adnan Cheema, ha addirittura aiutato il padre a spezzarle l’osso del collo senza rimorso e senza pentimento. Perché secondo lui quella era la giusta punizione per aver rifiutato il matrimonio forzato con un cugino. A lungo si è creduto che l’integrazione dovesse cominciare dagli adulti, rieducando i padri padroni e facendo leva sull’amore delle madri. Che per scelta o per costrizione si sono sempre schierate contro le figlie. La povera Saman, secondo le ricostruzioni della polizia, ha addirittura sentito la mamma approvare la sua condanna a morte.
La cronaca ci dice, dunque, che dobbiamo puntare molto di più sui fratelli maschi che in un sistema patriarcale sono l’elemento con maggiori possibilità di produrre cambiamento. Perché, rispetto alle ragazze, a loro vengono concessi maggiori margini di scelta. Perché hanno un potere di negoziazione sociale totalmente inibito alle donne. Quasi sempre gli uomini possono continuare la scuola dopo la secondaria di primo grado, mentre le figlie vengono recluse nella vita domestica. Per questo i ragazzi sono e saranno sempre i primi a poter decidere da che parte stare, se con il loro ferocissimo codice tradizionale o con lo stato di diritto. Però tutto questo può avvenire solo fuori dalle mura domestiche. Ecco perché le famiglie vanno stanate dai loro ghetti etnici e costrette a confrontarsi con la nostra società. A scuola, nei centri sportivi, nelle associazioni ricreative e altri spazi di socializzazione. E soprattutto, ai giovani stranieri vanno offerte strutture protette dove rifugiarsi quando affrontano lo scontro con le famiglie d’origine, che spesso sono l’unico riferimento che hanno in Italia. Solo così potremo difendere davvero Saman e le sue sorelle.
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