Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
Dire razza significa trovarsi subito a mal partito. Perché è un termine che scotta. Sia quando lo si pronuncia per invocare diritti civili e uguaglianza tra gli esseri umani. Sia quando lo si usa per ridurre qualcuno in una condizione di inferiorità e segregarlo in un retrobottega della storia. Ma è proprio l’incandescenza di questo concetto a richiedere un’analisi ponderata e perspicua, ampia e puntuale, come fanno due bei libri appena pubblicati da Einaudi. “Il bianco e il negro” di Aurélia Michel e “Il colore della Repubblica” di Silvana Patriarca. La prima insegna Storia delle Americhe Nere all’università Diderot di Parigi. La seconda è docente di Storia dell’Europa contemporanea alla Fordham University di New York.
Le due storiche hanno in comune lo stesso punto di partenza. La razza non esiste, ma il razzismo esisterà sempre. Perché se da un punto di vista biologico parlare di differenze razziali nel caso di homo sapiens è un errore marchiano, rimane il fatto che l’idea di razza è virale. Abita le nostre mentalità, serpeggia nella società e spesso orienta le scelte politiche. Ecco perché è di vitale importanza capire l’origine di questa malapianta del pensiero, studiarne l’evoluzione e gli effetti sociali.
Aurélia Michel ripercorre nell’arco di cinque secoli il fenomeno della schiavitù. Partendo da quella mediterranea per giungere a quella africana e atlantica. E mostra quanto il razzismo sia da sempre funzionale alla crescita della ricchezza, perché legittima la schiavizzazione della popolazione di turno. Attraverso un processo di “razzializzazione” dell’altro. Prima ne teorizzo differenza, inferiorità, infedeltà, insomma la natura diversa dalla mia, così acquisisco il diritto di sottometterlo, sfruttarlo, maltrattarlo, colonizzarlo. Rimanendo con la coscienza pulita. In questa “storia in bianco e negro” Michel mostra come il passaggio dal sistema della schiavitù al paradigma della razza, attraverso il colonialismo, abbia reso possibile e giustificato moralmente lo sfruttamento di forza lavoro a buon mercato nelle piantagioni e nelle miniere. Come dire che anche chi non è razzista beneficia economicamente dello sfruttamento di altri esseri umani. Ma questo discorso riguarda anche noi Italiani brava gente? Assolutamente sì, risponde Silvana Patriarca, con la sua indagine che ha per sottotitolo «Figli della guerra» e il razzismo nell’Italia postfascista. Dove ricostruisce la vicenda dei figli di soldati afroamericani e donne italiane, allora detti “mulattini”. Centinaia di creature indesiderate e indesiderabili. In realtà, con i “brown babies”, nessuno si è dimostrato all’altezza del compito. La Repubblica, la Chiesa, la medicina. E nemmeno gli Alleati. Abbandonati da tutti per paura di trasformare il Belpaese in una terra di neri a metà.
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