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La pizza, il caffè e la civiltà del buon gusto – il Mattino del 25 maggio 2022

26 Maggio 2022

Dal ventre di Napoli alla capitale del turismo gastronomico. In centotrenta anni la città ha saputo trasformare la miseria in nobiltà. La scarsità in golosità, la cucina popolare in attrattore turistico. E il Mattino ha raccontato passo dopo passo questa incredibile ascesa della cucina povera a modello alimentare sano e buono, noto in tutto il mondo con il nome di dieta mediterranea.  Considerata dall’Organizzazione mondiale della sanità e dalla FAO come il paradigma della tavola del futuro. E proclamata dall’Unesco patrimonio dell’umanità nel 2010.

Tutto ha inizio con Matilde Serao, fondatrice di questo giornale e autrice di pagine folgoranti sui cibi che il proletariato urbano a fine Ottocento riusciva a procurarsi con un soldo. Un settore (spicchio) di pizza dal sapore intenso di pomodoro quasi crudo, di aglio, pepe e pecorino. Bruciata fuori e cruda dentro. Provvidenzialmente difficile da digerire e proprio per questo capace di tenere lontani i morsi della fame. Tanto da essere definita dalla grande scrittrice “il pronto soccorso dello stomaco”. Oggi questa invenzione geniale si mangia ai quattro angoli del pianeta. E nel 2017 “l’arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano” è entrata trionfalmente nella lista Unesco dei patrimoni mondiali.

Donna Matilde racconta che con un paio di monete si poteva comprare un cuoppo di fragaglia, cinque panzarotti, oppure un panino farcito con carote e zucchine alla scapece. E quando la tasca lo consentiva si mangiavano minestre maritate, maccheroni con cacio e pepe, zuppe di legumi con la monnezzaglia (pasta mista), soffritto, trippa e baccalà. Lo street food regnava sovrano, perché chi praticava la proverbiale “arte di arrangiarsi” di fatto non aveva un posto per cucinare e spesso neanche per dormire. Perciò la pancia della città era un enorme sistema di produzione e vendita di rompidigiuno, sfizi, cartocci, piatti, monoporzioni da asporto. Proprio come adesso che i turisti fanno la fila per una pizza fritta o una parmigiana take away. Di fatto il foodismo di ora si nutre delle invenzioni di allora. Perché la cucina signorile e quella borghese, fatte di consommé e timballi di selvaggina, sono rimaste nei piani alti dei palazzi e un po’ alla volta sono scomparse anche dalle tavole dei ricchi, convertiti pure loro ai sapori semplici e schietti di scuola popolare. E lo stesso sta accadendo nei ristoranti stellati della Campania, dove il genio culinario degli chef universalizza sapori localissimi, come gli spaghetti al pomodoro che Alfonso Iaccarino del Relais Don Alfonso di Sant’Agata sui Due Golfi ha messo in carta già negli anni Ottanta. O la pasta e patate di Nino Di Costanzo, che nel suo ristorante Danì a Ischia serve in versione chic. E lo stesso fa Stefano Mazzone nell’esclusivissimo hotel Quisisana di Capri quando porta a tavola un pentolino d’argento con pasta e cicerchie che condensa umori e sapori dell’isola azzurra. E proprio questo tipo di piatti ha ristorato per oltre un secolo i teatranti. Gli Scarpetta e i De Filippo, racconta Giuliana Gargiulo, firma storica di “Loro di Napoli” rubrica di costume del Mattino, con commedie come “Miseria e nobiltà”, “Sabato domenica e lunedì”, “Questi fantasmi” hanno trasformato spaghetti, ragù e caffè in cibi dell’anima. Inoltre, i gusti di Eduardo, amante di alici fritte e insalata di rinforzo, sono diventati un libro di ricette dal titolo “Si cucine cumme vogli’i’”. E più di recente il sodalizio tra cibo, famiglia e palcoscenico si è celebrato nella scena memorabile del sartù di “Qui rido io” il film di Mario Martone e Ippolita di Majo su Eduardo Scarpetta.

Il Mattino ha anche orientato i lettori verso l’idea che il cibo è cultura. Come mostra un leggendario speciale degli anni Ottanta ideato non a caso dalla Redazione Cultura – popolata di talenti come Francesco Durante, Michele Bonuomo, Salvatore Signorelli, Carlo Franco – intitolato “La pasta l’è colta”. Che ha cambiato lo storytelling di questo ingrediente. Proiettando ziti e paccheri nel mainstream gastronomico nazionale. Il testimone oggi è stato raccolto da un fine intellettuale della gastronomia come Luciano Pignataro che, con l’acuta giornalista e scrittrice Santa De Salvo firma per Il Mattino “Campania Mangia & Bevi”, ma anche ricettari di cucina regionale vera. Quella che può tranquillamente fare a meno del katzuobushi (pesce fermentato) e considera ancora “la parmigiana di melanzane una prova dell’esistenza di Dio”.

E come dimenticare le fughe notturne di Diego Armando Maradona in cerca di cucina tipica? Uno spot mondiale. Come la margherita di Bill Clinton durante il G7 del 1994.

Ma tutto questo non sarebbe bastato a rendere famosa la cucina popolare campana se gli scienziati americani Ancel e Margaret Keys non ne avessero dimostrato per primi la salubrità e raccontato al mondo la sua bontà. Nata da un singolare epicureismo democratico, dove tutti hanno diritto ad un posto al sole. Anche a tavola.

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Elisabetta Moro
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