
Quel protettore che batte gli scaramantici – il Mattino del 26 aprile
Napoli è da sempre l’università della superstizione. Ma in questo…
Fornicava con la storia, concionava con la medicina, cospirava con la cucina. Piero Camporesi, l’italianista eretico, faceva tutto questo con la leggerezza sorniona di chi sa di spiazzare tutti e si diverte a farlo. Mosso dalla passione che viene dai sensi mobili e accorti, più che dalla ragione nobile e morta. Il suo era un metodo e al tempo stesso un’esplorazione rapsodica delle fonti minute dell’Occidente, per scovare in almanacchi e pamphlet, fogli volanti e prediche, la provenienza delle idee, delle mentalità, delle credenze e delle ossessioni di ieri e di oggi. Ne è un esempio perfetto. Il governo del corpo, appena mandato in libreria dal Saggiatore, in occasione dei venticinque anni dalla morte dell’autore, avvenuta a Bologna il 24 agosto 1997 all’età di settantuno anni. L’editore milanese sta meritoriamente ripubblicando l’opera omnia, a partire da Il pane selvaggio, Il sugo della vita, I balsami di Venere, La maschera di Bertoldo.
Il governo del corpo è un bel libro, anche per i neofiti del pensiero camporesiano. Si tratta, infatti, di una raccolta di articoli pubblicati sul Corriere della Sera tra il 1985 e il 1990, che il professore dell’Università di Bologna ha collazionato in un volume edito un paio d’anni prima di andarsene.
Nell’introduzione, spiazzante e spumeggiante, confessa candidamente che cimentarsi con questi testi brevi destinati alla Terza Pagina del quotidiano, quella dedicata alla cultura, gli provoca una sorta di euforia. Sono spazi di libertà, mentale e autoriale, che lo esaltano al punto da definirli una “blanda droga intellettuale”.
Si tratta di 27 saggi in miniatura dedicati a quel tornante della storia costituito dagli anni Ottanta, quando l’edonismo reaganiano si installa come un trojan nel disco rigido dell’Italia e formatta la cultura di massa alla filosofia dell’effimero, senza tuttavia cancellare i dati del vecchio bagaglio culturale. Il risultato è una storia contraddittoria, ondivaga, renitente.
«Occhiate sul nostro tempo» definisce i suoi articoli il saggista, tra i più noti al mondo. Ma spesso si tratta di occhiatacce, sulle mode, le manie, gli errori popolari come li chiamava Giacomo Leopardi, sul narcisismo di massa, sulla paranoia dietetica, sull’olocausto degli odori. Sul masochismo lipofobico delle donne, smagrite al punto da sembrargli «cadaveri gesticolanti». Di fatto il suo bersaglio è la religione del corpo, che inizia allora e ci circonfonde ora.
Umberto Eco ha descritto Camporesi come un signore che entra in un salotto buono, con al centro un tappeto bellissimo, che tutti considerano un’opera d’arte. Lui ne prende un lembo, lo rivolta e mostra che sotto brulicano vermi, scarafaggi, larve. Tutta una vita ignota e sotterranea. Insomma, nelle sue argomentazioni spiazzanti e affascinanti, dotte e curiose, ai confini tra critica letteraria, antropologia e storia sociale, ci fa leggere quei capitoli di storia vissuta che nessuno aveva scritto prima di lui.
In questo senso è esemplare il paragrafo intitolato Moderata refectio, dove spiega come l’idea che ciascuno di noi debba favorire l’armonia del proprio corpo sia stata concepita dai greci e dai latini, che consideravano la medicina una filosofia di vita, finalizzata al mantenimento dell’equilibrio fisico. E lo strumento primario di questa cura di sé passava dalla dieta, intesa però nel suo senso etimologico, di stile di vita. Con la parola diaìta, infatti, i greci si riferivano alla «saggia e oculata amministrazione del tesoro vitale in cui sono riposte la consistenza e la durata dell’esistenza». Non a caso con la parola dieta indicavano anche la casa, quindi il simbolo del rapporto tra l’uomo e il suo habitat. E per dire “cambiare vita” dicevano “cambiare dieta”. Ma la loro ricerca del benessere fisico era priva di precetti morali e regole etiche. Insomma, era senza l’idea del peccato che invece dominerà il mondo giudaico-cristiano. Così il medico, da Ippocrate in poi, è stato un esperto di alimenti, di cibi, un «investigatore dei segreti della natura commestibile». A questa idea di matrice ippocratica si ispira anche la teoria degli umori del romano Galeno, così di fatto per un paio di millenni questo paradigma culturale domina l’Occidente. E oggi è in pieno revival. Perché la secolarizzazione ha abiurato l’idea che digiuni e astinenze vadano fatti per compiacere Dio. Semmai per perfezionare l’Io.
La teologia cattolica ha a sua volta ripreso la teoria dell’equilibrio del corpo caricandola però di significati metafisici. Con l’idea che Adamo ed Eva siano stati i soli ad aver sperimentato il prefetto equilibrio corporeo. Ma con il peccato originale lo hanno perduto per sempre. Di qui la necessità di ritrovarlo attraverso l’esercizio della temperanza, della continenza, della moderazione e della mortificazione del desiderio. Con Sant’Ambrogio che predica di rinunciare alla tavola, perché la saliva del digiunatore è addirittura in grado di avvelenare il serpente tentatore. E San Gregorio sentenzia: «Non cibus sed appetitus in vitio est» (Il vizio non sta nel cibo ma nell’appetito). Come dire che il primo comandamento è non desiderare.
Finalmente usciti da questo tunnel oscurantista potremmo spassarcela, invece Camporesi si rammarica, perché pronostica l’arrivo di «falangi di nutrizionisti, alimentaristi, dietisti». Che puntualmente sono arrivate a scomunicare la cucina casereccia e godereccia. Con la complicità del nostro senso di colpa. E della nostra insaziabile “volontà di sapere”, come la chiama Michel Foucault. Quella voglia matta di scoprire che cosa non dobbiamo mangiare. Ma forse non tutto è perduto. Visto che non abbiamo ancora superato il punto di non ritorno. Che Camporesi identificava in un de profundis per la cotoletta alla milanese. Ma per fortuna è sopravvissuta.
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Prendi un Santo, aggiungi un celebre fotografo, mettici il Rione…