Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
Esordisce mostrando tre passaporti italiani che tiene nel cassetto della scrivania. Il suo, di cui va fiero e quelli dei nonni. Documenti di una genealogia tricolore che porta anche nel nome. Eduardo, eredità della famiglia materna di ebrei romani. Mentre il suo cognome, Kohn, racconta la discendenza da ebrei cechi. L’origine non è mai ininfluente nella vita di un intellettuale, ma quando si tratta di un antropologo, allora può diventare addirittura un destino. Come è stato per Eduardo Kohn, che sembrava predestinato all’immersione nelle foreste pluviali dell’Amazzonia.
Lui che, nato a Boston nel 1968, ha trascorso buona parte dell’infanzia in Ecuador con i nonni fuggiti dall’Europa durante la Seconda guerra mondiale per mettersi in salvo dalla furia nazifascista. La loro diaspora si è trasformata presto in una avventura intellettuale della quale il piccolo Eduardo è stato parte integrante. Perché in questa famiglia la formazione passa attraverso la trasmissione delle passioni. Dante, Leopardi, Borges. Ma anche la foresta, dove il nonno si inoltra alla ricerca di erbe officinali per i suoi preparati farmaceutici. Mentre la nonna archeologa e antropologa gli insegna l’arte dell’osservazione dell’altro. Persone, animali, vegetali, minerali, non fa differenza. Il creato è uno e indiviso. Mettersi alla ricerca dei suoi segreti significa affrontarlo di petto. Ed è esattamente quello che fa Kohn, fin dal suo post-dottorato all’università di Berkeley in California e che continua a fare ora che è professore di antropologia alla McGill University di Montreal in Canada.
Il 7 ottobre, Eduardo Kohn interverrà alla prima edizione del Pianeta Terra Festival a Lucca – ideato da Editori Laterza, promosso dalla Cassa di risparmio di Lucca e curato da Stefano Mancuso – in una tavola rotonda organizzata dal WWF sulla Nuova ecologia del sé.
Il suo libro How Forests Think, tradotto in 9 lingue e recentemente anche in italiano da Nottetempo con il titolo Come pensano le foreste, è diventato un punto di riferimento del nuovo pensiero ecologista internazionale. Appena uscito, nel 2014, ha vinto il Gregory Bateson Book Prize.
Ma è proprio vero che le foreste pensano?
Pensano per immagini. Non sono dotate di linguaggio, perciò le sottovalutiamo, ma sono in grado di comunicare. Al loro interno c’è una moltitudine di piante, animali, organismi, insetti, batteri, funghi che interagiscono fra loro. E ciò che scaturisce da questa vita brulicante è una foresta, che è un qualcosa di più generale ed è sempre nuova. I popoli dell’Amazzonia arrivano a dire che è uno spirito.
Si tratta propriamente di pensiero?
Allargo provocatoriamente il concetto e dico che tutti gli esseri viventi pensano. Anche quelli privi di cervello. Perché in tutti esistono processi di significazione e di percezione di sé. In più sono in grado di imparare dalle proprie esperienze.
A quando risale il suo primo incontro con la foresta?
Avevo diciotto anni e stavo dai miei nonni a Quito. I vicini proposero una escursione nella foresta vergine. È stato un colpo di fulmine. Mi sono ritrovato seduto sulle radici di un albero gigantesco a pensare che la foresta è molto più di un insieme di alberi.
In seguito, lei è andato “a scuola” dai Runa dell’Ecuador che abitano ad est delle Ande. Quattro anni di ricerca etnografica presso una popolazione amazzonica che vive in simbiosi con la foresta. Che cosa le hanno insegnato?
Prima di tutto a sopravvivere! La prima volta che ho dormito nella foresta il mio amico Juaniku mi ha spiegato che dovevo restare supino, in modo che i giaguari vedendo il viso e soprattutto riconoscendo la presenza degli occhi, potessero identificarmi come un uomo, un altro io, e non come uno spuntino.
In che modo i Runa parlano della foresta?
La conoscono come le loro tasche. È la loro fonte di sostentamento. Ne parlano con ammirazione, hanno inventato nomi per qualsiasi cosa e spesso usano onomatopee. Per loro è un essere.
Charles Baudelaire nel vertiginoso incipit di Corrispondenze dice che “La natura è un tempio dove colonne viventi, mormorano a volte parole confuse, l’uomo le attraversa come una foresta di simboli”.
Sono versi bellissimi. Le rispondo con le parole di Borges che ho messo in epigrafe al secondo capitolo: “Funes ricordava non solo ogni foglia di ogni albero, di ogni bosco, ma ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata (…). Sospetto, tuttavia che non fosse molto capace di pensare. Pensare significa dimenticare differenze”.
I poeti esplorano mondi ulteriori.
Come gli sciamani dei Runa, che con i loro viaggi mentali tornano sempre con nuove conoscenze.
I Runa però si ritengono anche cristiani da sempre e si vantano di essere “civilizzati”.
Sono stati colonizzati dagli spagnoli e convertiti. La loro storia è articolata e affascinante. Sono tutt’altro che “primitivi”, come si sarebbe detto un tempo. Addirittura, si ritengono dei bianchi a dispetto della loro pelle nera. E considerano i loro vicini Waorani dei “selvaggi”. Quando ho scoperto che nel villaggio di Ávila c’erano tanti Runa Puma, cioè persone-giaguaro in grado di vedere sé stesse con gli occhi di questo animale con l’aiuto, beninteso, di un potente allucinogeno come l’aya waska, ho pensato che era il posto perfetto per me.
L’etnografia è lo strumento di indagine principale dell’antropologia.
È il nostro modo di sintonizzarci con il mondo. È un ascolto profondo. Serve a capire le altre culture e la nostra. O se non altro è un tentativo di indovinare come funzionano. (Ridiamo insieme dell’assenza di certezze che attraversa la nostra comune professione). In fondo, l’antropologia come tutte le scienze umane è interpretativa.
Lei però mescola sapientemente la ricerca sul terreno, la semiotica, le scienze naturali, le neuroscienze e chiama il suo metodo “antropologia oltre l’umano”.
Credo che l’antropologia abbia fino ad ora dato un contributo straordinario concentrandosi su quello che ci rende umani, spiegando le diversità culturale e molto altro. Ora però possiamo superare il confine tra natura e cultura, come auspica il mio amico Philippe Descola, per studiare anche ciò che è al di là di noi. Le altre specie e i vegetali ai quali siamo connessi.
Si tratta anche di superare il dualismo cartesiano di spirito e corpo?
Sostanzialmente sì. Significa allargare i nostri terreni di ricerca a tutto il vivente.
In fondo però anche il suo approccio è debitore del “cogito ergo sum” di Cartesio, visto che lei considera il vivente in quanto tale anche pensante. Insomma “sum ergo cogito”.
La differenza è che nel mio ragionamento il pensiero non è ciò che distingue l’uomo dal resto della natura, semmai è ciò che lo accomuna alla natura.
Sento l’eco dell’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss, che in Tristi tropici dialoga col suo gatto e si rammarica che le strade dell’uomo e dell’animale si siano separate al punto da non avere una lingua comune.
Ho molti debiti culturali verso il maestro dello strutturalismo. Così come nei confronti della semiologia di Charles Peirce, dell’antropologia dell’incontro multispecifico di Donna Haraway e di Anna Lowenhaupt Tsing, della neuroantropologia di Terence Thick, dell’ecologia politica di Bruno Latour e di Descola, che con la sua lunga esperienza amazzonica mi ha aiutato a districarmi tra le liane della comprensione.
E poi, o forse prima di tutti c’è quel geniale apripista di Gregory Bateson di Verso un’ecologia della mente e di Mente e natura. A mio avviso lei è un suo epigono.
Grazie, non posso che esserne felice.
Si potrebbe definire la foresta una mente?
È una mente emergente. Io la definisco una creatura. Un sistema comunicante.
D’altra parte, la comunicazione non è fatta solo di parole e di concetti, ma di segni, di colori, di suoni, di profumi, di mimetismi, di mutazioni. Insomma, di rappresentazioni da cui nascono il linguaggio e il pensiero umani.
E prima ancora da cui nasce la percezione di sé.
Quello che talvolta chiamiamo identità.
E che è una esperienza comune a tutti gli esseri viventi. Per esempio, il fasmide, noto come insetto stecco, appena arriva il predatore si mimetizza. La semiosi iconica, cioè la capacità di distinguere e ripetere dei segni, gli permette di assumere l’aspetto di un bacchetto. Perché sa esattamente come è fatto.
Insomma, sa usare dei segni che lo fanno somigliare ad altri viventi e così scompare come un fantasma.
Per entrare ancor più nel dettaglio direi che l’ecosistema non è semplicemente un equilibrio termodinamico e biologico, ma è una ecologia di sé. Una interazione semiotica tra tanti sé aperta al possibile.
A cosa sta lavorando ora?
Ad un nuovo libro Forests For The Trees. Il titolo è tratto da un modo di dire inglese, “miss the forest for the trees”, letteralmente hai mancato la foresta perché ti sei fermato agli alberi. Come dire che non vedi la cosa generale ma solo i particolari. È una critica alla mancanza di astrazione e di generalizzazione. In Italia verrà pubblicato da Feltrinelli. In questo caso mescolo la mia biografia alla mia teoria.
Insomma, lei coniuga l’apertura mentale che viene dalla sua formazione multiculturale, familiare, diasporica con il rigore scientifico.
Proprio così. Alle spalle ho la cultura e il desiderio di scoperta dei miei nonni. Non a caso conservo tutti i loro libri nella libreria qui dietro. (Rompe gli schemi e con mia grande sorpresa agguanta il portatile e inquadra con la videocamera una serie di tomi, volumi, feticci che mi illustra con entusiasmo).
Sta strutturando sempre più l’idea di “un pensiero silvano” e di una “scienza psichedelica”?
Possiamo imparare dalla foresta. Dobbiamo pensare come la foresta. Che pensa psichedelicamente, in una simultaneità. Lei può fornirci un orientamento etico. La separazione tra l’uomo e il suo habitat ci ha condotti al disastro ecologico al quale stiamo assistendo e al cambiamento climatico. Se riusciremo a pensarci come un tutt’uno con la natura cambierà radicalmente il nostro sguardo sulla vita. E potremo diventare migliori.
La società è pronta per questo cambiamento?
I miei amici mi sfottono, dicono che per quando avrò finalmente scritto il libro sarà pronta!
Intanto lei sembra destinato a fare il leader di un movimento di difesa dei diritti della natura in quanto soggetto.
I primi a farlo sono stati gli Ecuadoriani che hanno inserito Madre Natura nella Costituzione come soggetto portatore di diritti. Ora mi chiedono da più parti aiuto per portare questa idea fuori dalla foresta amazzonica fin dentro le istituzioni internazionali.
Ora che sappiamo come pensano le foreste, arriveremo a capire anche che cosa pensano?
Me lo auguro. Vorrebbe dire che avremo imparato a pensare come le foreste. Cioè meglio!
Pronto per la battaglia ecologista?
Prontissimo!
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