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Jodice e i fuochi (con friggitoria) di sant’Antonio – Il Mattino del 16 gennaio 2023

20 Gennaio 2023

Prendi un Santo, aggiungi un celebre fotografo, mettici il Rione Sanità ed esce fuori un racconto di Napoli degno del cinema neorealista. L’intermediario celeste è Sant’Antonio Abate, protettore degli animali e signore del fuoco. Il maestro della visione è Mimmo Jodice. Che è cresciuto ai Gradini Vita alla Sanità, dove nell’Ottocento il nonno notaio aveva costruito un palazzo per godere dell’aria sana che dà il nome al quartiere. Il 17 gennaio di ogni anno, racconta Jodice alla soglia dei novant’anni portati splendidamente, il portone si apriva ai passanti. Tutti potevano entrare per chiedere una grazia. Il santo incappucciato, con la barba lunga, l’inseparabile maialino con la campanella al collo e il bastone a forma di tau era lì, nell’edicola votiva di famiglia in fondo all’androne. Ceri accesi, fiori profumati, marmi lucidati di fresco. Su una tavola imbandita con una tovaglia candida, una fila di panelli appena sfornati veniva regalata ai vicini, assieme a qualche zeppolina fragrante.  Perché il patronato dell’eremita egiziano si estende come un manto protettivo su pompieri, fornai, pizzaioli e friggitori, che alla fiamma danno del tu, come fa Dante con «lo maggior corno della fiamma antica», alias Ulisse all’Inferno.

La fame durante la guerra e subito dopo era tale che questa abbondanza festiva e gratuita faceva impazzire di gioia Mimmo e i suoi amici d’infanzia. Che con lui durante l’anno approfittavano ogni volta che ricorreva il giorno di un santo venerato da questa o quella famiglia per infilarsi nel palazzo di turno e mangiare a sazietà.

Poi il grande artista si è ritrovato negli anni Settanta a fotografare l’iperbolico cippo che ardeva al Borgo Sant’Antonio, quando con Roberto De Simone lavorava al prezioso libro Chi è devoto, dedicato alle feste popolari in Campania, con la prefazione di Carlo Levi. Si era in pieno revival folk e attorno a quella pira, alta una ventina di metri, si ballava al ritmo delle tammorre. A quel sabba popolare partecipava anche Angela Salomone, l’anima gemella e la voce narrante dell’artista silenzioso. Oggi ricorda quando da bambina metteva da parte piccoli pezzi di legno, gambe di sedie rotte, assi delle cassette per portarle al “fucarone”, che si faceva a due passi dal Lavinaio dove abitava, «la strada più disgraziata della città» mi dice. Ma che gioia, aggiunge, portare alla mamma le braci di quel fuoco sacro in una vecchia pentola, per farle ardere dentro casa e in questo modo affidare la famiglia alla protezione del Santo.

Oggi in città si accendono fuocherelli innocenti, perché le pire maestose di un tempo sono troppo pericolose. Ma in molti borghi della Campania e del Mezzogiorno si continua ad onorare Antonio illuminando la notte e vegliando intorno al falò. In ricordo di un episodio prometeico della vita straordinaria di questo paladino della fede, vissuto nel terzo secolo d.C.. Si tratta dell’episodio in cui ruba il fuoco ai diavoli con l’aiuto del suo porcellino, che mette a soqquadro l’Inferno per distrarre i maligni, e consentirgli di infilare il suo bastone tra le braci. Trattandosi di legno di ferula, proprio come quello del mitico Prometeo, un tizzone si conficca al suo interno. Quando i due escono a riveder le stelle il santo inonda la terra di scintille. E da quel giorno, recita la sua agiografia popolare, l’umanità ha iniziato a scaldarsi e a cucinare. Per questo il suo santino si è guadagnato un posto d’onore sui forni dei pizzaioli e spesso anche all’interno, perché al momento della costruzione c’è l’usanza di inserirne uno tra i mattoni. E per la stessa ragione è un’icona fissa nelle friggitorie. Gli avamposti del piacere democratico, i distretti del gusto, dove oggi si mettono in fila teorie di giovani per assaporare i capolavori dello street food partenopeo. Al punto che ormai si parla di “turismo della pizza fritta”. Che non va disprezzato, semmai valorizzato. Perché recupera un pezzo importante della storia di Napoli. Quello dei portoni della Sanità aperti uno dopo l’altro a seconda del santo del giorno. Quello della pizzaiola dell’Oro di Napoli interpretata da Sofia Loren nel celeberrimo film omonimo di Vittorio de Sica. Quella dei racconti di Matilde Serao che paragonava la pizza ad una “pianta esotica” tipica dell’habitat partenopeo, una provvidenziale razione K che funge da “pronto soccorso dello stomaco”. E in fine quella dell’ascetico Abate, che ha trascorso la sua vita centenaria combattendo le tentazioni, ma per uno scherzo del destino si è ritrovato a fissare sul calendario proprio l’inizio del Carnevale. Il periodo in cui ogni tentazione vale.

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Elisabetta Moro
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