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Quel protettore che batte gli scaramantici – il Mattino del 26 aprile

26 Aprile 2023

Napoli è da sempre l’università della superstizione. Ma in questo momento si divide in due scuole di pensiero.

Gli scaramantici integralisti e i cauti ottimisti. I primi interpretano la classifica del campionato di calcio alla luce delle regole rigorose e indiscutibili della matematica. E per paura di irritare la sorte si ostinano a non pronunciarsi, finché il verdetto delle cifre non sarà inappellabile. Della serie «partita è finita quando arbitro fischia», per dirla con Vujadin Boškov. E, per stressare il concetto boscoviano con una massima del Trap, «non dire gatto se non l’hai nel sacco!». Per questi superstiziosi ostici ed anche agnostici, le vittorie esaltanti degli azzurri, la schiacciante dimostrazione di superiorità, il vantaggio del punteggio, a nulla valgono se non a suscitare la temuta invidia degli dèi. Insomma, per loro si farà festa «solo quando arbitro fischia» la fine dei giochi e nessun club potrà riaprire la corsa scudetto.

Per i cauti ottimisti, invece, si può aver fiducia nella forza di questo Napoli da record. Partita dopo partita, goal dopo goal, sentono sempre più vicino il traguardo. La loro impazienza di festeggiare si sta trasformando in una forma di euforia giovanile. Come è accaduto ieri a Capodichino, dove al rientro dalla vittoriosa trasferta di Torino i giocatori hanno trovato ad attenderli diecimila supporter in delirio.

I vicoli sono zippati di bandiere, striscioni, icone, festoni. Scoppiano petardi e parte il mantra … «La capolista se ne va…!». Si tratta di atteggiamenti nuovi, che riflettono le trasformazioni della sensibilità partenopea nei confronti sia della superstizione, che della tradizione. I cauti ottimisti, infatti, spostano la soglia della paura sempre un po’ più in là. Non aspettano in apnea il grande risultato. Come successe, invece, nel 1987 quando il primo scudetto della storia azzurra fu preceduto da un esorcismo silenzioso durato mesi. La città sembrava muta, dava l’impressione di pensare ad altro, addirittura scherzava sul tabù che vieta di cantare vittoria troppo presto. Ma in realtà sotto la superficie ribolliva il magma che sarebbe esploso il 10 maggio trasformando Napoli in una santabarbara gioiosa, in un teatro a cielo aperto dove vecchi e nuovi miti si facevano da parte per fare largo a Diego Armando Maradona, che entrava da trionfatore nel pantheon cittadino, diventando la stella numero dieci nella costellazione degli eroi.

All’epoca del secondo scudetto, quello del 1990, la paura era ancora più forte, anche perché fino a tre giornate dalla fine la vittoria non era certa. La fede in Diego c’era e rendeva tutti più ottimisti.  Ma da allora sono passati la bellezza di trentatré anni, fatti di nostalgia e malinconia. Esaltazioni e delusioni. Ecco perché all’inizio del campionato in corso l’entusiasmo dei tifosi aveva sempre un certo ritegno nel manifestarsi, per paura dell’ennesima doccia fredda. Ma la marcia della squadra è stata così travolgente da far pensare che sia l’anno della nuova primavera.

Forse però il vero discrimine tra i primi due scudetti e quello che potrebbe arrivare a breve sta nel fatto che la fede in Maradona c’è sempre, ma questa volta Diego è fuori dal campo, perché il suo spirito aleggia sulla squadra e sulla città come quella di un santo protettore. Di un D10S salvatore. Che gioca una partita celeste e manda assist miracolosi che tengono alto il morale della squadra ed aprono i cuori alla speranza. Segnando un punto decisivo a favore degli ottimisti. Quelli che dicono «Non è ancora vero ma ci credo».

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Elisabetta Moro
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