Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
di Elisabetta Moro Antropologa
Chi ha ricevuto un’educazione alimentare vive più a lungo. Lo dice l’epidemiologo Ulrich Keil, professore emerito dell’Università di Münster, uno dei massimi esperti europei di problemi alimentari. E cita come esempio il caso della ricchissima Norvegia, uno dei paradisi del welfare, dove apparentemente la socialdemocrazia ha cancellato ogni disuguaglianza. Eppure non è così. Visto che i cittadini che hanno un grado di educazione alimentare meno elevato, vivono mediamente dieci anni di meno dei connazionali più istruiti. Il professor Keil non ha dubbi. Insegnare a mangiare in modo sano è una questione di giustizia sociale. Perché il Food Divide, il divario alimentare, è diventato una delle nuove misure della discriminazione. Per difetto, ma anche per eccesso. Lo dimostra a chiare lettere una recente ricerca svedese secondo la quale i soggetti obesi, a parità di competenze, guadagnano circa il 18% in meno dei loro colleghi normopeso. Di fatto gli oversize sono i nuovi paria del villaggio globale. Prima presi per la gola dal mercato planetario del junk food, di cui sono i veri finanziatori, e poi messi alla gogna da un’opinione pubblica sempre più formattata che li stigmatizza come onnivori compulsivi, bombe ad orologeria per il sistema sanitario. Obesità e insufficiente alfabetizzazione alimentare sono due marcatori di un’ingiustizia sociale scritta sui corpi. Una forbice biopolitica che sposta su un nuovo terreno i termini tradizionali del dislivello fra ricchi e poveri. Un tempo lo scarto era tra quelli che avevano cibo in abbondanza e quelli che non ne avevano. Ora invece è tra quelli che si nutrono di eccellenze e quelli costretti a mangiare quel che passano l’industria alimentare e la grande distribuzione. Tra chi può consentirsi il biologico e chi si deve accontentare del low cost. Insomma chi può compra, a prezzi da ricchi, quelli che una volta erano cibi da poveri. Basta pensare al boom di prodotti integrali, farro, legumi e tutto il cosiddetto chilometro zero. Mentre tutti gli altri cercano di destreggiarsi alla meglio fra mucche pazze, ogm, polli con l’aviaria, pesce al mercurio, pesticidi. Eppure il rimedio ci sarebbe. Tornare a un’alimentazione sobria, parente stretta di quella che Serge Latouche definisce abbondanza frugale. Ne è convinto Jeremiah Stamler, uno dei padri della cardiologia moderna, inventore del concetto di «fattore di rischio», oltre che scopritore, assieme al collega e amico Ancel Keys, delle virtù salutari della dieta mediterranea. Che proprio grazie a loro è diventata mainstream, al punto che le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ricalcano proprio gli esiti di un filone di ricerche inaugurato da questi due geniali pionieri della prevenzione delle malattie attraverso la nutrizione. E ora anche la Fao eleva questo antico regime nutrizionale a modello di moderna sostenibilità alimentare. Come dire che fa bene alla nostra salute come a quella del mondo. In questo senso lo stato di benessere del nostro corpo diventa la cartina di tornasole di quello del pianeta. E i due si corrispondono come microcosmo e macrocosmo. Non a caso l’Unesco ha riconosciuto queste qualità proclamando, nel 2010, la dieta mediterranea patrimonio dell’umanità. Ma tutto questo non sarebbe accaduto se negli anni Cinquanta Ancel Keys e la moglie Margaret Haney non avessero scoperto che gli operai dell’Italsider di Napoli avevano una condotta alimentare ideale. Senza saperlo e senza volerlo. Montagne di broccoli, frutta, pane, pasta, legumi. E carne ogni morte di papa. Tante fibre e pochi grassi. Il loro tasso di colesterolo nel sangue era perfetto. E le malattie di cuore pressoché sconosciute. Tutto l’opposto di quello che stava accadendo negli Stati Uniti. Dove i manager venivano abbattuti come birilli da infarti e ictus. Allora nessuno sapeva il perché. Furono proprio Keys e Stamler a mettere in relazione questi dati e a inaugurare un filone di ricerche internazionali che ci hanno portato alle conoscenze attuali. Di cui l’Italia può andare fiera. Perché lo stile di vita mediterraneo viene da molto lontano, ed è una ricetta fatta di ingredienti difficilmente clonabili. Prodotti di stagione, convivialità, biodiversità, grande artigianato gastronomico. E perfino campanilismi e localismi alimentari, piatti identitari e orgoglio culinario, che hanno fatto da anticorpi contro l’omologazione del gusto. Un grande patrimonio antropologico e democratico, che il nostro Paese non ha mai disperso del tutto, neanche negli anni del miracolo economico. Lo ha ricordato proprio Stamler nel corso di un’audizione al Senato nel 2009 a sostegno della candidatura Unesco, quando ha definito la dieta mediterranea «un modello alimentare che ha avuto uno sviluppo decisivo proprio in Italia, ed è talmente importante per la salute, che dovremmo tornare ad adottarlo». Il Food Divide insomma va combattuto. Perché il benessere smetta di essere un privilegio per pochi e diventi un bene comune.
11 April 2014 pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 17) nella sezione “Speciali“.
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