Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
La candidatura Unesco dell’arte dei pizzaioli napoletani potrebbe tagliare il traguardo in queste ore. E le vite di tanti “miserabili”del Settecento e dell’Ottocento troverebbero finalmente un riscatto storico.
Perché quel quarto stato il pane non se l’è solo guadagnato, ma se lo è dovuto inventare. O come si dice a Napoli, accunciare. Aggiustare, insaporire, aggarbare. Facendo di necessità virtù. Trasformando un impasto lievitato e schiacciato, presente in tutto il Mediterraneo, con tanti nomi e tante forme, in un pasto completo. In quello che Matilde Serao chiama «il pronto soccorso dello stomaco». Ne bastava una fetta con olio, alici e origano, per sentirsi sazi per molte ore. E non sfamava solo carrettieri, carpentieri, artigiani, ma anche le sarte, le lavandaie e tutte quelle popolane che con un soldo risolvevano il problema del pasto fuori casa. E con una pizza intera sfamavano tutta la famiglia.
I ragazzi delle botteghe distribuivano pizze per i vicoli di Napoli, anticipando quel che avviene oggi a Mumbai dove giovani in motorino consegnano i pasti, preparati a casa dalle mogli, a migliaia di impiegati. È il cosiddetto Dabbawala, studiato dalla Harvard Business School. E imitato dai colossi informatici che intravedono nel pasto a domicilio il business del futuro. Così, anche nel caso della pizza a porta a porta, Napoli ha dimostrato di essere una capitale intempestiva, come l’ha definita lo storico Giuseppe Galasso. O troppo in anticipo o troppo in ritardo. Fatto sta che questo cibo di strada, economico e gustoso, veloce e parsimonioso, flessibile e interinale, adatto a tutte le stagioni, ha fatto centro nel cuore e nella mentalità della città, che in solitario ha scommesso su questo capolavoro dell’arte povera, anche quando il resto d’Italia lo guardava dall’alto in basso. Tanto che i primi pizzaioli che hanno tentato di aprire dei locali fuori dallo specchio di Partenope hanno miseramente fallito. L’autrice del Ventre di Napoli, nonché fondatrice del Mattino, lo spiegava dicendo che evidentemente la pizza era una pianta esotica, che non poteva ambientarsi in altri climi.
Oggi sarebbe sorpresa e certamente lieta di sapere che invece la storia di questi artigiani che hanno inventato uno dei capolavori dell’arte di arrangiarsi a tavola, non solo è diventata un cibo planetario, tra i più amati al mondo, ma anche un hardware gastronomico compatibile con qualsiasi software.
Perché un po’ tutti i popoli e tutte le classi sociali se la sono accunciata a modo loro. Chi facendola diventare etnica, come la pizza Bollywood, con pollo e curry, chi con ingredienti raffinati come lardo di Colonnata e provolone del Monaco. Ma sempre pizza resta. Ma cosa potrebbe succedere all’arte dei pizzaiuoli napoletani se diventasse davvero patrimonio dell’umanità? Cioè se le 24 nazioni, di cui solo due europee, che sono presenti nel comitato intergovernativo riunito a Seul, in Corea, riconoscesse il valore storico antropologico di questo mestiere che non è un mestiere, ma una condizione umana? Certamente crescerebbe la reputazione della città, cioè aumenterebbe quello che viene definito il soft power, quella sorta di potere di seduzione che hanno certe tradizioni, costumi, invenzioni e arti. Si creerebbe un’aura positiva intorno ad una tipologia di produttori di cibo che da almeno tre secoli stanno affinando tecniche culinarie per sfornare pasti buoni, a prezzi democratici, che favoriscono lo scambio sociale, con un impatto ambientale ridotto. E soprattutto hanno creato un confort food interclassista. Perché il piacere condiviso è una delle componenti di questo bene immateriale, come viene definito dall’Unesco, che ha creato una categoria a parte per identificare nella storia dei popoli quei beni che fanno bene a tutti. Che favoriscono lo scambio tra le culture. Che includono e non escludono. E la creatività di questi napoletani con le mani in pasta ha inventato quello qche non esisteva. Un disco bianco sul quale scrivere la propria e le altrui storie. Senza mai rivendicarne la proprietà. Così se le pizzerie stanno già tirando la volata al turismo gastronomico in Campania e non solo, senza dubbio il prestigio del riconoscimento potrebbe avere un effetto straordinario su tutta la filiera. Perché ci sarà sempre qualcuno che vorrà assaggiare una pizza fatta ad arte. Dal golfo al globo.
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