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La ristorazione come antidoto all’alienazione da superlavoro – il Caffè

26 Marzo 2018

La controrivoluzione è stata rottamata dalla ristorazione. E la levitazione ha lasciato il posto alla lievitazione. Se nel Sessantotto si meditava, oggi si cucina. Allora si cercava la pace interiore negli ashram indiani, adesso ci si rifugia nelle cucine dei ristoranti. E anziché seguire i comandamenti del guru, si eseguono le comande dello chef.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando i Beatles hanno compiuto il loro celeberrimo viaggio in India per abbeverarsi alla fonte della conoscenza del Maharishi Mahesh Yogi. Con quella fuga dal mondo delle celebrities, i Fab Four hanno indicato a un’intera generazione il modo per ritrovare se stessa. Rallentare, pensare, praticare la meditazione trascendentale. Insomma, vestire i panni di un’altra civiltà per mettere radicalmente in discussione la propria.

Qualcosa di analogo sta succedendo ora. Infatti, da quando navighiamo come naufraghi schizofrenici sulle onde del web, il desiderio di staccare la connessione permanente tocca sempre più persone. Col risultato che molti professionisti, spremuti come limoni dalla globalizzazione, trovano la loro India tra i fornelli. Spesso bastano quelli di casa. Ma nei casi più gravi alcuni ricorrono a quelli professionali, i fuochi sacri che ardono nei templi della gastronomia.

L’essenziale è riappropriarsi del tempo e della manualità. Tagliare, sminuzzare, tritare, affettare, sbollentare, friggere e soffriggere, sono attività facili, ma che richiedono dedizione e concentrazione. Un antidoto perfetto contro il multitasking che costringe tutti a fare dieci cose insieme. Mentre la disciplina necessaria in una brigata obbliga i suoi membri a fare una cosa alla volta, in perfetto ordine di successione, altrimenti finisce a schifìo. Ci si affetta un dito, si sabota un piatto, si vanifica il lavoro degli altri. Si perde la faccia. Come insegnano trasmissioni televisive alla Hell’s Kitchen di Gordon Ramsey e Cucine da incubo di Antonino Cannavacciuolo.

Così, mollare tutto per una full immersion nella ristorazione, è diventato un modo per contrastare l’alienazione da superlavoro. Per evitare il crac nervoso. Per mettere ordine nella propria esistenza. Eseguendo gli ordini del capo. Sì Chef! Che, come racconta Federico Bastiani in questa pagina, giudica e manda secondo ch’avvinghia. Proprio come Minosse nell’Inferno di Dante. In fondo, che si tratti di un cuoco nonviolento come Luca Pappalardo del ristorante vegetariano-vegano Pane e Panelle di Bologna. Oppure di una star sottilmente sfottente come Carlo Cracco, per la legge del contrappasso gastronomico, anche una ramanzina diventa musica per le orecchie di chi ha bisogno di un direttore. Di un nocchiero in gran tempesta. Qualcuno che, proprio come facevano i maestri vedici nel Sessantotto, armonizzi la nostra emotività. Rimetta in asse il nostro baricentro di cittadini globali. Sradicati e smarriti. Ma, in fin dei conti, non del tutto perduti. Perché ci basta tornare alle cose semplici, come la lievitazione del pan d’arancio, per sentire l’anima che fa ommmmm.

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Elisabetta Moro
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