Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
Il cibo è l’energia sostenibile della storia. E al tempo stesso il motore della cultura. Perché nutre il corpo, ma soprattutto l’anima. Alimenta i nostri pensieri, le nostre passioni, il nostro immaginario. Costruisce legami sociali tra gli uomini e al tempo stesso crea una relazione di interdipendenza fra noi e gli animali. Fra il vivente e l’ambiente. A questi temi l’Unesco dedica, per la prima volta nella storia di questa prestigiosa istituzione, una giornata mondiale di riflessione che si svolgerà il 24 maggio nella sua sede di Parigi. “Food Culture: social inclusion, sustainable development and cultural identity” (La cultura del cibo: inclusione sociale, sviluppo sostenibile e identità culturale) è il titolo dell’iniziativa promossa dall’ambasciatrice italiana all’Unesco, Vincenza Lomonaco, e che vedrà tra i partecipanti l’antropologo del Suor Orsola Benincasa Marino Niola, il giurista Pier Luigi Petrillo capo della task force Unesco del nostro ministero dell’agricoltura, Matteo Lorito, Direttore del dipartimento di Scienze Agrarie della Federico II, Carlo Petrini, fondatore di Slow Food e molti altri. E non è un caso che questa giornata di studio sia guidata dal nostro Paese, perché che la cultura del cibo sia importante per noi Italiani è quasi scontato. Tanto che anche a tavola parliamo di piatti e ricette. Quelle che stiamo degustando, quelle abbiamo mangiato in precedenza e quelle che mangeremo presto. Insomma, all’ombra del tricolore viviamo in un continuum gastronomico, che parte dall’infanzia, da quei cibi che sono autentici “piaceri a rilascio lento” come le graffe della nonna, la pasta e piselli della zia, il ragù della mamma. Perché ci fanno gioire ancora oggi al solo ricordarli. E poi ci sono i racconti delle feste, come per esempio i mitici festeggiamenti degli scudetti del Napoli, nell’87 e nel ‘90, con le tavolate lunghe quanto interi vicoli, con i “ruoti” di parmigiana e di pasta e fagioli sbucati all’improvviso dai bassi, perché le gioie vanno condivise con gli altri, passanti compresi. E, come se non bastasse, anche al nostro orizzonte c’è del cibo. Con il pranzo luculliano che ci attende alle nozze imminenti di amici e parenti. Dove tutti esagerano, ma non si può fare diversamente, perché l’eccesso in quelle occasioni è di rito. Di fatto è un obbligo sociale. E poi, recita la vox populi, “chi non accetta non merita”.
La gastro-mania del Belpaese lascia sempre di stucco i popoli molto diversi da noi. E persino i Paesi Protestanti, che sono europei come noi, ma che con il cibo hanno un rapporto più morigerato, strettamente legato al bisogno di nutrirsi e rigorosamente subordinato dall’appetito. Come d’altronde predicavano cinquecento anni fa i padri della Riforma, Martin Lutero, Huldrych Zwingli e Giovanni Calvino. Ai loro occhi, infatti, i Cattolici erano tutti dei golosi impenitenti. E con tutta probabilità quella spaccatura tra l’Europa Mediterranea e quella Protestante rimane sotto traccia fino ai nostri giorni. Ma qualcosa sta finalmente cambiando. Come dimostra il vento nuovo che soffia in questi giorni in quel tempio della cultura che è l’Unesco. L’agenzia delle Nazioni Unite che da sempre si occupa di educazione, scienza e cultura è la più importante e influente istituzione internazionale nell’ambito del patrimonio culturale. Dal 1972 appunta medaglie alle casacche dei suoi membri riconoscendo il valore universale di siti archeologici, chiese, centri storici, emergenze naturali. A partire dal 2003 ha riconosciuto il valore anche dei beni culturali immateriali, cattedrali della cultura che sono entrati nel novero dei patrimoni meritevoli dell’attenzione internazionale. Per l’Italia è toccato all’opera dei pupi siciliani, al canto a tenores della cultura pastorale sarda, all’artigianato tradizionale del violino a Cremona e a numerosi altri. Mancava però il cibo, che molti Paesi facevano fatica a considerare più di una semplice necessità. Finché il nostro ministero delle politiche agricole non è riuscito nella difficilissima impresa di convincere le altre nazioni che il cibo è cultura al cento per cento. Così è arrivata la consacrazione della Dieta Mediterranea nel 2010, la “vite ad alberello” della comunità di Pantelleria e l’anno scorso l’arte dei pizzaiuoli napoletani. A breve potrebbe arrivare il prestigioso riconoscimento anche per le Colline del Prosecco. Mentre sulla rampa di lancio ci sono la raccolta del tartufo con i cani e il pesto ligure. A questo punto viene da chiedersi cosa succederebbe se venissero candidati cibi simbolo come la pasta e la tazzulella ‘e cafè.
Negli ultimi anni sono diventati patrimonio dell’umanità anche il pasto gastronomico dei Francesi, la cucina messicana, il washoku giapponese, il pasto cerimoniale del capodanno nipponico. Manca però ancora una vera e propria consapevolezza di quanto il cibo sia in grado costruire identità e solidarietà. Inclusione e integrazione. Sviluppo sostenibile ed economia pulita. E di quanto le culture locali siano ricche di saperi, conoscenze e tradizioni virtuose, in grado di garantire un rapporto più equilibrato con l’ambiente e con le risorse dei territori. È venuto il momento di riconoscere questi preziosi “atti culturali alimentari”, che attendono di essere riscoperti e valorizzati. Perché se è vero, come diceva l’economista Adam Smith, che la nostra storia economica è governata da una mano invisibile, quella mano da sempre impugna una forchetta.
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