
Quel protettore che batte gli scaramantici – il Mattino del 26 aprile
Napoli è da sempre l’università della superstizione. Ma in questo…
La cucina del Sud è rinata. Facendo della tradizione il suo punto di forza. Dopo decenni di marginalità e di apartheid gastronomico, si sta prendendo la rivincita. In Italia e non solo. Perché il vento è cambiato, l’artigianato alimentare ha ripreso quota e viene ricercato dai gourmet di tutto il mondo. Ne sa qualcosa Oscar Farinetti, il patron di Eataly, che nei suoi punti vendita ai quattro angoli del pianeta promuove i prodotti tipici italiani. Ma, per sua stessa ammissione, da New York a Seul, da Mosca a San Paolo, quello che vende di più sono i cibi made in Sud. E detto da un piemontese, orgogliosissimo delle sue radici albesi, vale il doppio. La pasta batte il riso. Il pomodorino straccia il tartufo. L’olio extra vergine di oliva spodesta il burro. La mozzarella di bufala se la batte col blasonatissimo Parmigiano. Si tratta di una rimonta storica della mediterraneità che apre al Mezzogiorno autostrade di economia pulita.
A dare una grande mano sono stati i riconoscimenti Unesco. Quello della Dieta mediterranea nel 2010 e dell’Arte dei pizzaiuoli napoletani lo scorso 7 dicembre. Perché hanno acceso uno spot sulle vocazioni gastronomiche meridionali e sul loro valore culturale, nutrizionale, salutare. Non a caso sul carro della dieta mediterranea stanno cercando di salire anche l’industria alimentare e quella farmaceutica. Perché i tassi di longevità da record delle aree dove si pratica da secoli questo stile di vita valgono più di qualsiasi campagna pubblicitaria. Quando negli anni Sessanta Ancel e Margaret Keys, i due scopritori e promotori del Mediterranean Way dicevano che la cucina del Sud era il futuro e non il passato, in pochi capirono che avevano ragione. L’Italia del boom economico inseguiva a grandi passi il cambiamento e considerava le conserve e la stagionalità vecchiume ad obsolescenza rapida. Ma, da quando i consumatori hanno cominciato a ravvedersi, da quando il movimento Slow Food ha dato la sveglia a tutti e soprattutto da quando si è capito che il cibo cattivo è direttamente correlato a molte malattie, c’è stato un ripensamento collettivo. Così chi ha continuato a produrre la pasta con tutti i crismi, i latticini a regola d’arte, i salami come dio comanda, si sono ritrovati da ultimi a primi della classe. Da retrogradi artigiani senza master in economia aziendale ad artisti del buon cibo.
Ora però viene la grande sfida. Non è tempo di dormire sugli allori. Queste finestre della storia durano poco. È necessario elevare il tasso di alfabetizzazione del mondo food, che deve necessariamente investire in competenze e conoscenze. Paradossalmente, ora che la tradizione è riconosciuta come un valore, è il momento di innovarla. Proprio per non tradirla, ma per valorizzarla. Perché la tradizione non è la mummificazione del bel tempo andato. Le radici, infatti, non sono radicate nel passato, ma ramificano nel futuro. E il primo passo da compiere è investire sul racconto dei prodotti e dei piatti. Senza riesumare dai bauli improbabili zie e finte nonne, ma scavando nella memoria collettiva, raccontando al mondo perché l’accostamento di certi ingredienti rende unico un piatto di candele al ragù o di ziti alla genovese. Perché l’olio che pizzica in gola è come un puledro che scalpita. Perché il fiordilatte cambia sapore a seconda delle stagioni. E perché la pizza al tempo dell’amica geniale era il pronto soccorso dei poveri.
Sono reduce da un ciclo di conferenze negli Stati Uniti sulla cultura gastronomica italiana presso le università dell’Illinois e del Wisconsin, l’Istituto Dante Alighieri di Detroit e l’Istituto Italiano di cultura di Chicago che ha organizzato l’intero ciclo. Quel che ha colpito il mio sguardo di ricercatrice impegnata da quasi un decennio nella valorizzazione della dieta mediterranea è la fame di Italia che caratterizzava studenti e professionisti, cuochi e professori. Tutti alla ricerca di una conoscenza sofisticata della nostra civiltà della tavola. Che tiene insieme il parlar materno di Dante e i ricettari di Cavalcanti e Artusi, la lirica (candidata all’Unesco) e il teatro dei pupi (già riconosciuto dall’Unesco). Una miscela vitale di bel canto e rimpianto. Di passato e di futuro. Di nostalgia e di nuova imprenditoria. Di fatto lontana dalla vecchia trattoria dei paisà che, nel bene e nel male, con spaghetti with meat balls e cannoli da Padrino ha tenuto acceso il fuoco dell’origine. Ho avuto la netta impressione che stia crescendo un nuovo orgoglio tricolore, a misura del villaggio globale. Dove è di casa solo chi ha un campanile nella memoria. Tutti gli altri sono homeless. Insomma sta nascendo un vero e proprio “patriottismo gastronomico”, che non è né di destra né di sinistra, né sovranista né globalista. Ma appartiene a donne e uomini che con il buono fanno il bene del Paese. E celebrano a tavola le glorie del Belpaese.
Napoli è da sempre l’università della superstizione. Ma in questo…
Prendi un Santo, aggiungi un celebre fotografo, mettici il Rione…