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Sette donne su dieci ancora a casa nel Sud – il Mattino

8 Marzo 2019

Nessuna nazione può tenere in panchina le donne senza retrocedere in serie B. Lo ha dimostrato con i suoi studi il premio Nobel per l’economia Amartya Sen. E se il professore di Harvard leggesse i dati anticipati oggi dal rapporto SVIMEZ “Questione femminile altra faccia della Questione Meridionale” dedicato all’occupazione femminile nel Mezzogiorno, vi troverebbe l’ennesima conferma delle sue teorie. Perché nel mondo globale, dove la connessione digitale e la velocità dei processi sociali accelera la competizione tra popoli ed economie, il contributo culturale, ideativo, tecnico, organizzativo e programmatico delle donne è indispensabile. Chi crede di poterne fare a meno si sbaglia di grosso. Sì, perché le cifre parlano chiaro. L’economia italiana non sta andando bene e al Sud va anche peggio.

Le donne che vivono nelle regioni meridionali devono remare controcorrente. E spesso affondano nel mare della disoccupazione, della sottoccupazione, della ristrutturazione, delle paghe miserevoli, delle dimissioni coatte in caso di gravidanza, dei demansionamenti, dei licenziamenti. Paradossalmente le ragazze studiano di più e ottengono di meno. Per sé stesse, ma anche per il Paese. Bloccate a bordo campo, nonostante siano pronte a dare l’anima per la squadra, e sappiano fare goal anche più dei titolari. Ovviamente la ricetta non può essere quella di sostituire gli uomini con le donne. Ma tagliarle fuori pregiudizialmente dal mondo del lavoro in attesa che si realizzi il sogno della piena occupazione, è un errore grave, sia dal punto di vista strategico che da quello sociale. Perché, come recita il rapporto, le giovani meridionali “hanno investito in un percorso di formazione e di conoscenza che le rende depositarie di quel «capitale umano» che serve per competere nel mondo di oggi». E invece sono «le vittime designate di una società più immobile che altrove, e dunque più ingiusta, che finisce per sottoutilizzare, rendere marginali o «espellere» le sue energie migliori”.

Il quadro che emerge è impietoso e desolante. La Campania, assieme a Puglia, Calabria e Sicilia ha un tasso di occupazione femminile tra i più bassi d’Europa, fermo ad un agghiacciante 30%. Che equivale al 35% in meno rispetto alla media europea. Se poi si guardano le regioni in vetta alla classifica si rischiano le vertigini. Aland in Finlandia è all’80,5% e Stoccolma, la capitale della Svezia, è arrivata al 77,9. Insomma anziché prendere esempio dalla Scandinavia ci ritroviamo addirittura più in basso della Guiana francese, della Tessaglia e della Macedonia greca e perfino dell’enclave spagnola di Melilla in Marocco.

Oltre tutto le poche fortunate che hanno un impiego, svolgono per lo più mansioni dequalificate, nettamente inferiori alla loro intelligenza e competenza. Tecnicamente si chiama segregazione professionale. E ricorda altre forme di apartheid, come quella subita dalla popolazione di colore negli Stati Uniti e in Sud Africa.

Di fatto trovare il lavoro corrispondente al proprio titolo di studio è diventata una mission impossible. Dalle elaborazioni SVIMEZ su dati EUROSTAT e ISTAT aggiornati al 2018, emerge che al Sud il tasso di occupazione per le laureate raggiunge appena il 63,7% contro il 79,8% del Centro-Nord. Mentre nel resto d’Europa la media è dell’81,3%, con punte dell’84,7% in Germania e 85,9% nei Paesi Bassi e dell’85,2% in Portogallo.

Risultato.Le italiane che l’anno scorso hanno svolto lavori qualificati sono state solo 3 milioni 663 mila e tra queste appena 851 mila sono meridionali, vale a dire meno di un quarto del totale. Se poi si guarda dentro la busta paga, si scopre che una laureata da quattro anni che lavora al Sud ha un reddito medio di mille euro netti al mese, inferiore di  300 euro a quello di un lavoratore maschio di pari livello. A questa disparità oggettiva si aggiunge il peso del welfare che non funziona e scarica sulle madri l’inefficienza del sistema pubblico degli asili e delle scuole. Una trappola senza uscita che espone le donne con figli a un rischio maggiore di povertà, proprio nel periodo canonico della maternità, che va dai 25 ai 34 anni.

Insomma le pari opportunità sono ancora un miraggio. Mentre la disuguaglianza tra i generi è la dura realtà. A monte di questa mole allarmante di dati che riflette l’immagine di un Meridione in via di sottosviluppo, c’è purtroppo anche un sentire comune duro a morire che considera il lavoro uno strumento di realizzazione più per i maschi che per le femmine. E che derubrica il malfunzionamento dei servizi per l’infanzia, i malati e gli anziani come un problema delle donne e non dell’intera società. Ma un Paese giusto è quello che punta all’eguaglianza con determinazione. Senza se e senza ma. E che, come dice Sen, mette tutti i cittadini in condizione di svolgere efficacemente le loro funzioni, garantendo la libertà di perseguire i propri piani di vita. Solo così le risorse umane risorgono dall’apatia e dalla frustrazione, per dare un contributo allo sviluppo di un luogo. E proprio per questo il Mezzogiorno ha un disperato bisogno delle sue donne.

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Elisabetta Moro
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