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Parmigiana e baccalà fritto, eredità ebraica tra “ricette e precetti” – Il Mattino

27 Gennaio 2020

“Mangiare come dio comanda” prima che un piacere per gli ebrei è un dovere. Perché nutrirsi è un po’ come pregare. Mettersi a tavola significa compiere un atto spirituale, che trasforma il cibo nel controcanto materiale dell’Antico Testamento. Un promemoria culinario che rinsalda i legami familiari e sociali attraverso un calendario rituale che ripropone anno dopo anno i piatti di sempre. Così i ricettari si presentano come i registri puntuali di un patrimonio fatto di monumenti-documenti alimentari, attraverso i quali l’antico popolo di Israele si ritrova unito, anche se disperso ai quattro angoli del pianeta. A raccontarlo mirabilmente è Miriam Camerini in un bel libro intitolato “Ricette e precetti”, pubblicato da Giuntina (220 pag. 18 euro), con la prefazione di Paolo Rumiz, le illustrazioni di Jean Blanchaert, le ricette di Jasmine Guetta e Manuel Kanah redattori di un raffinatissimo blog di piatti ebraici (Labna.it).

L’autrice, che studia per diventare la prima donna rabbino d’Italia, è regista teatrale, attrice e cantante. Nata a Gerusalemme nel 1983 da genitori italiani, si è trasferita da bambina a Milano, dove oggi vive e lavora. Nelle pagine del libro, la sua profonda conoscenza della cucina ebraica si mescola con una raffinata arte del racconto, la memoria famigliare si intreccia a quella degli ebrei italiani, disegnando un quadro che è al tempo stesso intimamente domestico e intensamente pubblico. Un raccoglimento interiore e un rito collettivo. Perché mangiare alla giudea significa prima di tutto riconoscere che il cibo è sacro. Per questo ogni pasto si apre e si chiude con una preghiera per ringraziare dio dei suoi doni alimentari e per chiedergli di contenere la voracità degli uomini dentro i limiti della decenza. E nessuno può alzarsi dalla tavola prima che venga benedetto e ringraziato il nome del Signore, che le briciole di pane simbolo di abbondanza vengano raccolte per essere conservate e che il sale, simbolo del rituale del Tempio di Gerusalemme, venga riposto accuratamente. Mentre una mano pietosa copre le lame dei coltelli perché rappresentano uno strumento di violenza.

Rispettare uno per uno tutti i precetti della Toràh non costituisce un esercizio ozioso, una pignoleria integralista, una puntigliosità retrograda, ma una adesione piena ad una parte imprescindibile dell’ebraismo, che come molte religioni antiche del mediterraneo è ritualista. Cioè non è fatta solo di astrazioni teologiche e vertigini metafisiche, ma è fatta anche di comportamenti concreti, di riti quotidiani, di gesti ripetuti e tramandati da una generazione all’altra sempre alla stessa maniera, per non disperdere quella parte dell’identità collettiva che è tramata di vita quotidiana. Pratiche di distinzione, le avrebbe definite il sociologo francese Pierre Bourdieu. Regole, prescrizioni, protocolli, paletti, impedimenti, interdizioni e anche molti tabù. Un corpus di leggi conosciuto sotto il nome di kasherùt, che stabilisce dalla notte dei tempi cosa è kascher (o kosher), cioè corretto, e cosa non lo è e pertanto non si può né fare né mangiare. È lecito cucinare agnelli, capretti, vitelli, oche, ma è proibito nutrirsi di maiali, polpi, molluschi, cammelli. Perché è scritto a chiare lettere nella Bibbia. Seguire i precetti biblici significa aderire ad un progetto esistenziale, ad un vero e proprio stile di vita, che non contempla la prevaricazione dell’uomo sulla natura.

Ma la cucina ebraica non è caratterizzata solo da quel che è proibito. A renderla un grande giacimento culturale è una stratificazione secolare di sapori, umori, odori. Senza questa grande tradizione non avremmo la parmigiana di melanzane, non conosceremmo il baccalà fritto e nemmeno i carciofi alla giudìa, che nella comunità ebraica di Napoli si soffriggono con olive e capperi, mentre in quella romana, si immergono interi nell’olio bollente, per farli riemergere dorati e fragranti.

Ma per gli ebrei mangiare significa anche raccontare. Tanto che per i bambini vengono inscenate piccole pièce teatrali quando si porta a tavola un piatto ipersimbolico come la Ruota di Faraone. Una tradizione che si replica ogni anno nella cena dello Shabbat Beschallach, che quest’anno cade l’8 febbraio. Il piatto diventa il luogo di una vera e propria rievocazione storica della fuga degli ebrei dalla schiavitù egiziana e delpassaggio nel Mar Rosso che si apre miracolosamente per far scappare il popolo d’Israele guidato da Mosè. Ma subito dopo si richiude sugli inseguitori, come racconta il libro dell’Esodo (14.15). Le onde che sommergono l’esercito del Faraone vengono rappresentate dalle tagliatelle all’uovo cotte nel brodo di cappone. Al posto delle teste dei suoi soldati ci sono uvetta e polpettine di manzo soffritte in padella. I pinoli tostati simboleggiano le lance degli aggressori disperse tra i flutti. Un bel po’ di rondelle di salsiccia d’oca (l’equivalente kasher del maiale) raffigurano le ruote divelte dei carri. Alessandro Manzoni nella poesia Marzo 1821 mette in versi la scena: “Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia chiuse il rio che inseguiva Israele”. I bambini invece la scena se la mangiano. La mandano giù per mandarla a memoria.

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Elisabetta Moro
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