Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
Quest’anno Natale non si è presentato come Dio comanda. Manca il grande freddo all’esterno e il calore familiare dentro le mura domestiche. Entrambi di rito in ogni casa Cupiello d’Italia. No, questa volta tutto sembra diverso. E persino le abbuffate del 25 e del 31 rischiano il flop. Con la tavola delle grandi occasioni drasticamente ridimensionata ad uno spuntino. Ospiti contingentati, mascherati, distanziati, spaventati. O semplicemente azzerati.
Il governo giustamente scoraggia ogni tipo di rimpatriata. Il Centro di ricerche sociali sulla dieta mediterranea MedEatResearch ha lanciato l’idea di trasferire il desco sul desktop, condividendo il momento del pasto con amici e parenti messi in comunione dalle piattaforme digitali gratuite. Per ridurre lo stress da isolamento, la ministra dell’Innovazione Paola Pisano ha chiesto alle compagnie telefoniche di rendere gratuite le videochiamate nei giorni di Vigilia e Natale.
L’emergenza pandemica richiede prudenza e rigore. Non c’è alternativa. Ma l’insofferenza all’isolamento cresce in tutta Europa. In Italia il DPCM Natale è diventato subito un terreno di scontro dentro e fuori il parlamento tra rigoristi e permissivisti. Ma l’argomento che mette tutti d’accordo è il valore della festa in famiglia. Possiamo sopportare tutto, ma non la frustrazione di mangiare da soli. E in fin dei conti non è nemmeno colpa nostra. Perché l’amore per il convivio viene da molto lontano ed è il risultato di una stratificazione culturale millenaria.
Il cibo è il vero carburante della vita comunitaria e non potrebbe essere diversamente. Perché in realtà non è la società a fare la convivialità. Ma è vero il contrario. È la convivialità a fare la società. Poiché noi diventiamo un collettivo grazie allo scambio di beni, idee, gesti, visite. E il cibo è la prima delle cose che gli umani si sono scambiati. Questa regola universale la ritroviamo confermata in ogni angolo di mondo. Ma nel Belpaese e in generale nel Mediterraneo tutto questo è ancor più evidente. Perché nel Mare Nostrum gli alimenti non vengono solo offerti, donati e ricambiati. Vengono anche condivisi. E questo fa una bella differenza. Sia in pratica che in teoria. Ma soprattutto in teologia. Non a caso nel politeismo greco l’incontro con gli dei avveniva attraverso il sacrificio di animali sugli altari. Le carni arrostite profumavano l’aria e le divinità ne inalavano l’essenza. I bocconi invece spettavano agli uomini, che se li dividevano e li consumavano nello spazio pubblico. Il popolo di Israele ha fatto della precettistica alimentare una forma di preghiera corale, con la comunità che mangia cibi kasher, cioè puri, per riannodare generazione dopo generazione, i fili di una erranza esistenziale. Il Cristianesimo ha addirittura fatto dell’ultima cena il climax del sacramento eucaristico. Quando Gesù offre il dono-perdono del suo corpo trasformato in pane e vino. Diventando nutrimento per l’anima dei fedeli. Dal canto suo l’Islam ha fatto dell’alternanza tra festa e digiuno, fra giorni comuni e ramadan, una palestra di temperanza. E sulla stessa lunghezza d’onda i Veda, libri sacri dell’Induismo, la terza religione più diffusa al mondo, raccontano che l’uomo per onorare i numi deve prima di tutto cucinare per loro. Il sacrificio rituale, infatti, come ha mirabilmente spiegato Charles Malamoud in Cuocere il mondo (Adelphi), è indispensabile per comunicare con il sacro. E i brahamani, i sacerdoti che appartengono alla casta dei puri, sono prima di tutto dei cuochi, che preparano pietanze per le cerimonie anche dei più poveri.
Il fatto che religioni tanto diverse abbiano in comune un rapporto particolare con la nutrizione, sia attraverso il digiuno sia attraverso le orge alimentari, dimostra che il cibo è il più elementare sistema di comunicazione umana. E perciò è imprescindibile. Al punto che la sacralizzazione della convivialità ha resistito alla secolarizzazione della nostra società. Ed è stata ritradotta in altri termini dal pensiero laico e illuminista. Tanto che Michel de Montaigne diceva che “Conta di più con chi si mangia, che cosa si mangia”. E il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach ha riepilogato la questione nel suo celebre “Siamo quello che mangiamo”. Mentre la vox populi ha inventano il più prosaico, ma non meno efficace, “chi non mangia in compagnia o è un ladro o è una spia”. Cioè, sta ai margini della comunità.
Nel Novecento sociologi come Émile Durkheim, William Robertson Smith e George Simmel, assieme ad antropologi come Marcel Mauss e Mary Douglas, hanno dimostrato che la tavola è un fatto sociale totale, perché è lo specchio fedele di tutte le dinamiche collettive. Che si tratti della tavola di re Artù, dove si decide e si mangia insieme, inter pares. O della mensa frugale dei braccianti. Non a caso i compagni, dal latino cum panis, sono coloro che letteralmente condividono il pane. E persino il nostro lessico politico deriva dalle pratiche alimentari degli antichi. Come ha spiegato John Scheid in Quando fare è credere (Laterza), il concetto di “partecipazione” viene da pars capere, letteralmente avere una parte del banchetto sacrificale. E il termine Princeps, da cui il nostro principe, deriva da primus capere, cioè colui che a tavola viene servito per primo.
E oggi la convivialità riceve addirittura la sua consacrazione sperimentale dalla scienza, che cerca di spiegare, dati alla mano, perché mangiare da soli fa male, aumenta il rischio di obesità, favorisce le diete sbilanciate e provoca un cattivo assorbimento dei nutrienti. Come dire che il contatto umano è il primo ingrediente di ogni pasto. E se manca quello non c’è più gusto. Ma non c’è nemmeno salute.
Il sociologo francese Claude Fischler nello Studio “Food, Boody, and Health: A transcultural approach” ha mostrato, statistiche alla mano, l’esistenza di una correlazione virtuosa tra convivialità e benessere. Un dato per tutti. Francesi e Italiani che, nonostante la ristrutturazione del mondo del lavoro continuano a pranzare seduti a tavola con i colleghi o i famigliari, hanno un tasso di obesità pari al 10% della popolazione. Mentre nel mondo anglo-americano che ha sostituito il pranzo con un sandwich trangugiato alla svelta, ben un terzo della popolazione è extra large. Insomma, dove la sfera della nutrizione è dominata dal junk food e dal business delle diete, le persone sono sole davanti al piatto e lo consumano come una merce qualsiasi. Invece, nell’Europa del Sud, a salvarci è la straordinaria profondità della nostra storia culinaria dove il pasto in comune è un imperativo gastronomico. Perché noi, come diceva Plutarco, non ci sediamo a tavola per mangiare e bere, ma per mangiare e bere insieme.
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