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Archeo-vendemmia a Pompei – Il Mattino del 27 ottobre 2021

30 Ottobre 2021

Bacco è tornato a Pompei. Ieri nella città sepolta dalla furia del Vesuvio il dio del vino ha ricominciato a danzare. Perché è cominciata la vendemmia. Mani esperte raccoglievano grappoli d’uva nelle antiche domus davanti ai turisti sbigottiti, che scattavano foto ai filari arrossati dall’autunno e allineati in una geometria del tempo che parte dal Foro Boario, scavalca i muretti della Casa del Triclinio estivo, si spande nella dimora della Nave Europa, si intreccia al pergolato della Caupona (osteria) del Gladiatore e di quella di Eusino, per spandersi come una ragnatela purpurea nell’Orto dei Fuggiaschi. L’archeo-vendemmia pompeiana è un evento unico al mondo, che ricongiunge due lembi della storia. L’oggi e quel giorno fatale, il 24 ottobre del 79 d.C. quando lo “sterminator Vesevo” di leopardiana memoria seppellì Pompei e regalò al mondo l’archeologia. Era proprio il periodo della vendemmia. Perciò ripiantare le viti esattamente là dove si trovavano un tempo ha il sapore della vita che risorge dalle sue ceneri. E stappare una bottiglia del Villa dei Misteri, il bland di Piedirosso, Sciascinoso e Aglianico vinificato dalla cantina Mastroberardino con le uve del Parco Archeologico, riannoda il filo rosso che ci lega all’antichità. Perché il vino è l’esempio più lampante delle lunghe durate della storia. Basta visitare Villa Regina di Boscoreale, l’unica fattoria di epoca romana interamente scavata e conservata. Una villa rustica che è stata sepolta da otto metri di cenere e lapilli, dove si producevano diecimila litri di vino all’anno. La cella vinaria contiene diciotto orci giganteschi di terracotta ancora intatti, interrati fino all’orlo per mantenerne stabile la temperatura. L’uva arrivava copiosa dai campi circostanti portata nelle ceste da servi e schiavi che la sversavano nella vasca del calcatorium, dove una miriade di piedi nudi la pigiavano. La prima spremitura dava un vino di qualità superiore destinato all’invecchiamento. Le vinacce, invece, venivano messe sotto torchio per ricavare un vinello di pronta beva, destinato ai lavoratori. In ogni cantina c’era un altare dedicato al dio dell’ebbrezza. A lui era riservato il primo mosto, in segno di riconoscenza. In suo nome venivano organizzati i baccanali, le feste del vino. E sempre in suo onore si alzavano le coppe per brindare.

Le matrone romane apprezzavano il nettare bacchico quanto gli uomini, ma un’antica credenza attribuiva agli alcolici proprietà anticoncezionali e abortive. Perciò il gentil sesso doveva astenersi dai brindisi in molte fasi della vita. Così, nell’impero che ha inventato la giurisprudenza, vigeva una legge speciale che attribuiva ai maschi di famiglia lo ius osculi, il “diritto di bacio”, per appurare se sorelle, cugine e nipoti avessero trincato di nascosto.

Apicio, il più grande gastronomo dell’antichità, descrive nel suo ricettario De re coquinaria, molti modi per insaporire il vino, con pepe, semi di cumino, zafferano, cannella, miele. Suggerisce di mettere in infusione nel mosto i petali di rosa e di viola, per renderne il bouquet ancora più floreale. Riporta l’uso tradizionale di ripassare nell’olio bietole e scarole bollite, spruzzandole di vino dolce passito. Funghi, porri, rape e sedano lessati, suggerisce di condirli con olio d’oliva e vino puro, cioè non diluito. Mentre a tavola i coppieri lo miscelano con l’acqua, tanto è denso e amaro. Spesso persino cotto e talvolta affumicato. Questa immensa cultura del bere è stata tramandata ed esportata, tanto che le legioni romane hanno piantato vigne in Francia e in Germania. E l’Italia è ancora oggi il più grande produttore di vino al mondo. Con un volume di affari di 3 miliardi l’anno solo nel mercato interno e alla fine del 2021 l’export raggiungerà i 7 miliardi. Inoltre, lo Stivale vanta già tre patrimoni vinari riconosciuti dall’Unesco: la coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria, i paesaggi vitivinicoli del Piemonte, Langhe-Roero e Montefeltro e le colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene. La Regione Campania ha recentemente incaricato l’Università del Sannio e il MedEatResearch del Suor Orsola Benincasa di elaborare la candidatura del paesaggio culturale e antropico della Falanghina DOC. Il più famoso e venduto tra i vitigni made in Sud.

Insomma, sembra proprio che l’Italia sia diventata davvero una immensa Enotria, cioè terra del vino, come veniva chiamata la Lucania nel V secolo a.C. Una vigna lunga quanto lo Stivale dove lavorano donne e uomini che hanno fatto del nettare di Bacco l’oro liquido del Made in Italy da bere.

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Elisabetta Moro
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