Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
Quest’anno Halloween è tornata in presenza per fare posto agli assenti. Morti viventi, anime ritornanti, fantasmi tremolanti. Un popolo spettrale che l’anno scorso la pandemia ha messo in lockdown. E che ora riemerge dalle tenebre a passo di zombie per farci vivere una nuova thriller night. Una burla macabra per farsi amico l’orrore.
I bambini si trasformano in un incubo per amici e parenti, compagni di classe e vicini di casa, sbucando da ogni angolo nascosto con un sorriso beffardo, pronti a sparare minacciosamente la domanda: “dolcetto o scherzetto?”. Agguati rituali per costringere gli adulti a sganciare seduta stante cioccolatini e caramelle. Oppure, in alternativa, a pagare pegno. Questo rito infantile è arrivato in Italia dagli Stati Uniti una ventina d’anni fa e progressivamente ha colonizzato l’immaginario della vigilia di Ognissanti. I maggiori promotori di questo business sono il cinema e il marketing, che hanno disseminato il villaggio globale di segni e simboli, oggetti e concetti. Ma a ben vedere, Halloween non è affatto una invenzione americana. Semmai è il frutto maturo di una fusione di feste antichissime e di riti dimenticati che proprio nel bacino del Mediterraneo e nel Nord Europa hanno visto la luce. A cominciare dai Lemuria dei romani, degli esorcismi collettivi per tenere lontani gli spiriti dei morti, i lemuri appunto. Queste cerimonie, secondo la tradizione, sarebbero state istituite da Romolo per placare l’anima del fratello Remo e scongiurarne la vendetta. Ovidio racconta nei Fasti che ogni pater familias attraversava la casa nel buio della notte e si gettava alle spalle delle fave nere recitando la formula “Manes exite paterni” (spiriti degli antenati uscite!). Questo incontro nelle tenebre era l’occasione per un dialogo con i propri cari estinti, ai quali si potevano chiedere notizie, favori e intercessioni. Ma era assolutamente vietato voltarsi per guardarli. Proprio come racconta il mito greco di Euridice e Orfeo.
Nel 609, Papa Bonifacio IV rimpiazza queste feste pagane con il giorno di Tutti i Santi, che di fatto sono gli antenati totemici dei Cristiani. Nel 730 un altro pontefice, Gregorio III, sposta le celebrazioni da maggio a novembre, per contrastare anche sul versante festivo, l’avanzata dei Celti. Il suo bersaglio era la festa di Samhain, che letteralmente significa “fine dell’estate” e si celebrava il 31 ottobre. Segnava l’inizio di quel tempo morto in cui le greggi tornano nell’ovile e i campi riposano. Una faglia del calendario tra il vecchio e il nuovo anno, che lasciava aperte le porte dell’aldilà per una notte. Si tratta di una credenza pressoché universale, perché una delle cose che distingue l’uomo dagli altri animali è proprio la pratica di seppellire i morti e l’elaborazione del lutto. Così tutte le culture si concedono un time out al di fuori della storia, per riallacciare i fili della relazione con chi non c’è più. E soprattutto per chiedere che cosa c’è in quell’aldilà dell’esistenza. Serenità o dolore, pace o paura? Come fa Dante nella Divina Commedia, quando smarrisce la diritta via e va dritto all’Inferno. Dove interroga tutte le anime che incontra sulla loro morte per capire quale sia il senso della vita.
Il sommo poeta in fondo ha sublimato nella poesia quel che era, ed è, un sentimento comune. Il desiderio di sapere come va a finire e il bisogno di stringere un patto di solidarietà tra vivi e morti. Due istanze che più prosaicamente animavano anche i nostri nonni, quando lasciavano sul tavolo della cucina o sul davanzale della finestra acqua e cibo per ristorare le anime di passaggio. Gesti concreti per tradurre in azioni le astrazioni della teologia. Come l’ostensione domestica delle zucche intagliate come teste e illuminate dai lumini. A Orsara di Puglia, in provincia di Foggia, le chiamano “cocce priatorije”, cioè teste del Purgatorio. Una tradizione Made in Italy che precede di molti secoli quella importata dagli USA.
Ma lo stratagemma più geniale di Sapiens per esorcizzare la paura del tu per tu con i cari estinti è incorporarne simbolicamente il ricordo, mangiando cibi rituali che consolano l’anima e il corpo. Come i “torroni dei morti” che abbondano nelle pasticcerie campane. I biscottini a forma di tibie e teschi che in Sicilia chiamano “ossa di morto”. E poi ci sono le fave, sia in versione salata che dolce. Nel Triveneto si consumano avidamente le “favette dei morti”, dei pasticcini colorati e ricoperti di granelli di zucchero a base di pasta di mandorla. In Lombardia si affetta il “pan dei morti”, in Toscana il “pan coi santi”. In Puglia si prepara la “colva”, detta anche “grano dei morti”, dove i semi vengono bolliti e aromatizzati con mosto cotto, noci e cannella. E in Sardegna è il periodo dei “papassinos”, a base di semola di grano, uvetta, miele, noci e mandorle. Insomma, nella tradizione italiana il dolcetto c’è sempre stato. E adesso dagli USA è arrivato anche lo scherzetto.
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