Quella serata a Capri cantando in napoletano. Il mio ricordo di Marc Augé su il Mattino del 25 luglio 2023
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
La febbre presepiale surriscalda il corpo di Napoli. Nei decumani si assiste ad un andirivieni di appassionati, curiosi, collezionisti in cerca di statuine e souvenir che rendano memorabile l’immersione nel ventre natalizio della città. E gli artisti di San Gregorio Armeno si son fatti trovare pronti. Con i personaggi storici e con quelli della cronaca. La Sacra Famiglia, i Re Magi, schiere di angeli in volo, il pastore della meraviglia con gli occhi sgranati verso il cielo. A seguire la presidente Meloni, rigorosamente in tailleur con giacca e pantaloni, degli stessi colori tradizionalmente riservati alle statuine della Regina Elisabetta. Il che testimonia una investitura dal basso, con il suo inevitabile carico di aspettative. Ma l’immaginario partenopeo, come è noto, ha sempre una soluzione per tutto, così la premier è assediata da gobbetti portafortuna, corni rossi, busti di San Gennaro. In un rimescolamento di segni e significati che intrecciano sacro e profano, bello e kitsch, genio e sregolatezza.
Ma anche questo è tradizione. Perché a leggere i resoconti di viaggio dei più importanti intellettuali d’Europa si ha la conferma che da almeno tre secoli la città va regolarmente in fibrillazione dall’Avvento alla Quaresima. E intraprende un grande gioco collettivo che con la Natività ha a che fare solo fino ad un certo punto. Perché quel che più conta è mettere in scena sé stessa.
La celebre scrittrice danese Friederike Brun, amica di Goethe e di Madame de Stäel, nel 1818 scrive che il presepe all’ombra del Vesuvio è attraversato da un’allegra frenesia, con centinaia di personaggi intenti a spicciare le loro faccende quotidiane. Le donne stendono i panni, allattano gli infanti, le vecchie sbriciolano pane ai colombi e alle galline, le contadine negli abiti tradizionali del Regno portano in dono al bambinello ceste di uova, frutta, primizie di ogni genere. Le fanciulle ballano la tarantella napoletana e il saltarello romano. «Nelle danze tutto respira la grazia della verità, tutto è vita e gioia, una gioia idillica e mite». Insomma, una successione di scene teatrali fissate in un fermo immagine della storia. Sguardi meravigliati, bocche aperte, braccia spalancate, nasi arricciati, genuflessioni ostentate, sorrisi gioiosi, che Brun mette in relazione con i quadri di vita popolare dipinti dai pittori fiamminghi, come David Teniers il Giovane, genero del celebre Jan Bruegel. Il presente insomma fa irruzione nella rappresentazione e aggiunge il popolo dei devoti di oggi a quello dei pastori ebrei che hanno assistito alla nascita del Messia. E Brun non ci trova nessuna incongruenza, al contrario liquida le facili critiche agli anacronismi assolvendo i figurinai che ai suoi occhi non peccano di ignoranza o superficialità, semmai applicano al presepe le stesse regole che da sempre valgono per la pittura, dove la Madonna veste spesso abiti rinascimentali o barocchi e la grotta è sostituita da un palazzo signorile. E soprattutto dove i committenti prendono parte alla scena della natività, come nella rinascimentale Cappella dei Re Magi dipinta da Benozzo Gozzoli nel palazzo de’ Medici a Firenze, dove la famiglia al gran completo e scortata dagli alleati, partecipa in pompa magna al corteo degli adoratori di Gesù.
Fra l’altro gli anacronismi spesso sono opera degli stessi ecclesiastici, spinti dalla necessità di tradurre il dogma astratto dell’incarnazione in un messaggio comprensibile a tutti. Anche a costo di immettere dosi massicce di invenzioni. Come nel caso del presepe che «si friccica», cioè semovente, descritto dall’architetto Luigi Vanvitelli, progettista della reggia di Caserta, al fratello Urbano in una lettera scritta l’11 gennaio del 1766. La scena, illustrata ai presenti da un lazzarone che si è improvvisato guida turistica, inizia con frate Paolo che celebra la messa, mentre tra i banchi le ragazze amoreggiano con i fidanzati. Nella bottega accanto alla chiesa il fornaio segna su un foglio le ordinazioni della giornata e lo si vede nella scena successiva infornare le pagnotte per la procace Carmelina alla quale non manca di dare un pizzicotto sul sedere. Sullo sfondo si assiste alla fuga in Egitto dei santi genitori che poi si presentano al frate con il Bambinello in braccio perché lui lo battezzi. Ed ecco spuntare per l’occasione un padrino e una madrina vestiti a festa. E mentre fra’ Paolo versa l’acqua sulla fronte del figlio di Dio come un novello San Giovanni, dal castello in miniatura parte un colpo di cannone. Il lazzarone che fa da cicerone al presepe esulta. I visitatori si meravigliano. Ecce Napoli!
Marc Augé aveva Parigi nel cuore e il mondo nella…
Napoli è da sempre l’università della superstizione. Ma in questo…